Guerra al Califfato/ Il ruolo strategico di Ankara

di Ennio Di Nolfo
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Domenica 11 Ottobre 2015, 23:12 - Ultimo aggiornamento: 12 Ottobre, 00:04
La prima, quasi spontanea, reazione dell’opinione pubblica dinanzi all’attentato all’Ankara è stata quella di accusare il presidente Erdogan di esserne l’ispiratore. La contrapposizione tra il Presidente e buona parte della popolazione turca ha trovato da qualche anno molte espressioni.



Non ultime, dopo il mancato successo elettorale del 2002, le aspre manifestazioni in piazza Taksim a Istanbul, nel 2013, solo in parte bilanciate dall’elezione alla presidenza della Turchia, nell’agosto 2014, con un suffragio non proprio entusiastico (il 52 per cento dei voti). Questi elementi davano nell’insieme una visione delle difficoltà interne della Turchia, proiettando sulle prossime elezioni parlamentari di novembre uno scenario poco rassicurante e tale da spiegare anche il ricorso al terrorismo di Stato. Ma questa prima reazione appare dettata più dalle impressioni del momento e dalla volontà di trovare subito un capro espiratorio, che dall’intenzione di cogliere le vere responsabilità. Nella giornata di ieri, il ministro degli esteri italiano, Gentiloni, si è chiesto a chi possa più giovare l’uso di una violenza così estrema. La sua risposta coglie la sostanza del problema: «La violenza terroristica danneggia tanto il governo quanto le forze di opposizione democratica come l’Hdp di Demirtas promotore della manifestazione.



Il primo soggetto che soffre è proprio l’Hdp, che è un partito che poteva dare uno sbocco pacifico alla causa curda». L’Hdp è il partito moderato curdo, che con i sindacati aveva promosso la manifestazione dell’Ankara e che può essere considerato come un serio partecipante alla vita del nuovo parlamento, se, come è probabile, otterrà più del 10 per cento dei voti, quanti ne prevede la legge elettorale turca per eleggere deputati. Esso è il braccio moderato della minoranza curda che trova nel Pkk l’espressione più intransigente e risoluta anche all’uso delle armi. Tuttavia i Curdi non hanno alcun interesse, in questo momento, a porsi contro uno degli alleati che con loro si battono contro il dilagare dell’estremismo dell’Isis. Ecco allora che la ricerca delle responsabilità richiede un esame più analitico delle posizioni di tutte le parti in causa e un ampliamento del quadro geopolitico di riferimento.



Dopo un lungo periodo di esitazioni, condizionate appunto dalla questione curda, nel luglio scorso il governo turco decideva di associarsi alla coalizione impegnata a combattere contro l’Isis. Era spinto a questo passo dall’eccidio compiuto poco prima da un kamikaze dell’Isis a Suruc, nel corso di una manifestazione organizzata da Curdi e socialisti turchi, con una trentina di vittime. A rafforzare questo impegno ha poi verosimilmente avuto un ruolo anche la decisione russa di entrare in gioco militarmente contro l’Isis, a difesa di Assad, ma anche, di fatto, a fianco della Turchia. Una coalizione eterogenea, spiegata dalla rispettiva volontà turca e russa di non concedere alla Russia l’esclusiva della difesa del Mediterraneo orientale dall’avanzata dei fondamentalisti islamici.



Per dirla in altri termini, ciò che ormai si sta combattendo sul territorio della Siria e dell’Iraq, con la partecipazione di gran parte dei paesi vicini e con l’improvviso, ma atteso, inasprirsi della contrapposizioni israeliana-palestinese, è una sorta di conflitto che i pessimisti interpretano come il segnale di una conflagrazione che investirà tutto il Medio Oriente ma che, in ogni caso, mostra l’evidente intenzione degli esponenti dell’Isis (anche se fossero vere le notizie sull’uccisione del loro leader, Al-Baghdadi) di avanzare verso il Mediterraneo, conquistando tutta la Siria e spingendosi poi verso l’Arabia Saudita e verso la Libia.



Naturalmente questa ambizione richiede la disponibilità di molte risorse militari e finanziarie, ma le notizie più recenti offrono in proposito dati eloquenti circa la forza degli islamisti. Inoltre, l’assenza degli Stati Uniti e di effettivi contingenti di terra della Nato, unita all’impossibilità nella quale Putin si trova, di oltrepassare certi limiti rispetto alla presenza militare russa nell’area, rendono la Turchia come il baluardo principale dell'Occidente rispetto alla penetrazione dell’estremismo islamico.



Non appare dunque fuori luogo interpretare l’attentato dell’Ankara come l’espressione della volontà di impedire la saldatura tra le forze turche, quelle curde e quelle delle altre parti che si accingono a operare con maggiore risolutezza per fermare il pericolo. È questa considerazione che orienta la ricerca delle responsabilità in una direzione che (senza escludere a priori altri argomenti) tende a escludere quella turca e richiede che da parte dei paesi Nato non si colga l’occasione per emarginare ulteriormente il pur criticabile regime di Erdogan.