Tragedia greca/ Il pericolo di un pasticcio con quattro finali possibili

di Oscar Giannino
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Mercoledì 1 Luglio 2015, 23:34 - Ultimo aggiornamento: 23:55
Fino al referendum greco di domenica, ogni giorno avrà la sua pena. Ieri Germania e Italia all’unisono hanno assunto la linea secondo cui Alexis Tsipras ormai può scrivere tutte le controproposte che vuole, ma non si tratta più se non dopo aver contato i voti dei greci. Dietro le quinte, non è propriamente così. E, dietro una coltre di riserbo ancora più spessa, la Bce sta intanto preparandosi anche ai peggiori scenari.

Cerchiamo di fissare in alcuni punti sintetici gli sviluppi in corso e i possibili esiti che, a meno di smentite, saranno comunque un gran pasticcio.

Primo: la linea europea. La Germania non ha dovuto faticare poi troppo nell’ottenere il consenso pressoché unanime sulla linea «impicchiamo Tsipras al suo referendum». Il premier greco l’ha buttato sul tavolo a sorpresa credendo di intimorirci? Bene, a questo punto se vincono i sì alla proposta europea, deve dimettersi. Se vincono i no, visto che lui per primo è si impegnato ventre a terra chiedendo ai greci di fare quella scelta, Tsipras sarà il vero responsabile di tutto quanto avverrà dopo.

Questa la linea europea. Che Renzi a Berlino ieri ha sposato con tanto di schiaffo a Juncker, perché «mettere becco con altre proposte nel referendum è dare una mano alla demagogia». L’unico a tirarsi fuori da questa linea è stato, ieri pomeriggio, il presidente francese Hollande. Con la Grecia bisogna continuare a trattare prima e dopo il referendum, ha detto. Per almeno due ragioni.

A pensarla così per primo è Barack Obama e in seconda battuta è anche vero che in realtà ieri il premier greco un nuovo passo l’ha compiuto, che non lascia affatto le cose come stavano il giorno prima.

Secondo: Tsipras. Ieri, per la prima volta, il governo greco ha infatti inviato a Bruxelles un documento con 5 obiezioni alla proposta della Troijka che venerdì ha rifiutato. È un documento che integra la richiesta furbesca avanzata martedì, di accedere a un programma di assistenza Esm fino a fine 2017 per 30 miliardi. In questa sede non ha molto senso perdersi nei particolari delle obiezioni di Tsipras alla proposta europea, la richiesta di confermare lo sconto Iva alle isole, le solite obiezioni all’accelerazione dell’attuazione della riforma previdenziale e il no al taglio dell’integrazione previdenziale ai redditi medi. Quel che conta è che politicamente, accettando per la prima volta di confrontarsi esplicitamente con le proposte di Ue-Bce-Fmi (ancora ci chiediamo che cosa c’entri quest’ultimo in una trattativa che riguarda esclusivamente l’Europa), Tsipras ha lanciato un messaggio chiaro. Se dovesse vincere il no, come sembra dai sondaggi e come il Tsipras spera, si riparte da una trattativa dura. Ma se dovesse vincere di misura il sì, il premier non si dimetterebbe, perché la trattativa ripartirebbe comunque dalle sue proposte successive al testo che ha messo in votazione nelle urne. Il particolare essenziale è che Juncker lunedì aveva dato - a nome suo, non dei governi europei - una disponibilità a considerare anche la richiesta di ristrutturazione del debito greco, da sempre avanzata da Tsipras e rifiutata dall’Eurozona.

Terzo: le vittorie troppo rotonde. Tutti ragionamenti, da parte europea come greca, sul filo del paradosso. Che cioè valgono solo se il no o il sì vincono di misura. In realtà se dovesse vincere il sì al 65-70% Tsipras sarebbe pienamente sconfessato, non si capisce come farebbe a restare in carica. La Grecia dovrebbe andare a nuove elezioni. Per mesi resteremmo tutti congelati in una situazione rischiosissima. Ma se a stravincere fosse il no, in quel caso è veramente difficile immaginare su quali basi l’Europa potrebbe autosconfessarsi integralmente, e accettare una proposta greca basata praticamente solo sul bis della ristrutturazione del debito, dopo i 100 miliardi già abbuonati nel 2012 abbattendone il valore nelle mani dei creditori privati. Questa volta i creditori sono all’80% pubblici, tra Bce, prestiti bilaterali con euromembri, veicoli finanziari comunitari e Fmi. Perché si possa arrivare a un ulteriore riscadenzamento delle rate di restituzione già spalmate ai greci in un orizzonte ventennale, e per ridurne anche l’ammontare in maniera non troppo pesante ma allo stesso tempo non solo simbolica (15-20%), bisogna che i greci alle urne non esagerino la loro protesta. Altrimenti, il demone dei contrapposti nazionalismi e il conto dei torti greci nel passato renderà tutto più difficile.

Quarto: dietro le quinte. È opinione molto diffusa che in realtà Merkel abbia garantito a Obama che non ci sarà rottura dell’euroarea. Ma gli ultimi 6 mesi mostrano che i fatti non assecondano le intenzioni, quando la trattativa non ha regole e obiettivi chiari. Dietro le garanzie che prescindono da quel che i greci decideranno, la Bce sta attrezzandosi febbrilmente anche per le ipotesi peggiori. Se Tsipras non dovesse dimettersi ma ricominciasse più tosto che mai e non pagasse alla scadenza del 20 luglio i denari dovuto alla Bce, la linea di emergenza di Francoforte alle banche greche salta per forza. E le banche greche falliscono. E a quel punto si aprono diversi scenari uno più temibile dell’altro, ma a cui bisogna essere comunque pronti. A seconda dello stato delle trattative a quel punto, si dovrebbe essere pronti o a un’uscita a tempo della Grecia dall’euro, in cambio comunque di riforme più limitate e di aiuti per restare in una fascia di oscillazione del cambio tra euro e dracma. Oppure a un regime di cambio fisso, che vincolerebbe ancor più il programma di riforme greco, e che nella storia ha numerosi esempi di fallimento (uno fu quello tra Germania, Francia, Italia, Belgio e Svizzera deciso nel 1865, la cosiddetta Unione Latina, che saltò dopo che 2 anni dopo fu ammessa, guarda caso, la Grecia, per poi essere seppellito dalla guerra franco-tedesca nel corso del 1870). Una terza ipotesi ancor più astratta potrebbe essere quella dell’eurizzazione, cioè del permanere nell’euro con una moneta interna comunque denominata ma una base monetaria solo pari alle riserve della banca centrale greca, e dipendendo a quel punto solo dalla bilancia dei pagamenti per espanderla o contrarla: è un caso che alla Grecia si attaglia poco, povera com’è di industria e di export e materie prime, e potendo contare soprattutto solo sugli introiti turistici.

Se i no saranno schiaccianti, Alba Dorata ha già detto che non vuole nessun vincolo con l’euro e l’Unione. Ma in ogni caso starà alla Bce parare il fondo schiena ai greci e a noi tutti italiani, esposti come siamo all’attacco dei mercati che inevitabilmente si scatenerebbe. Non è affatto paradossale, che ancora una volta, di fronte alla malaparata, scenda in campo l’unica istituzione europea che, con Mario Draghi, in questi anni ha comprato salvezza ai politici europei, che pessimamente ne hanno saputo trarre frutto. Perché la lezione è una sola: euro e non euro, si appartenga alla moneta comune o no, solo con finanza pubblica equilibrata a basse tasse, e solo con elevata produttività possono reggersi le economie dei paesi maturi. Quelli in cui i costi del welfare sono molto elevati, e possono essere retti solo da una crescita realizzata con un’elevata remunerazione del capitale, oltre che del lavoro.