Intifada dei coltelli, altri tre morti

di Fabio Nicolucci
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Martedì 13 Ottobre 2015, 23:56 - Ultimo aggiornamento: 14 Ottobre, 00:08
[CAPOL4R-1CR]Di fronte alla criminale serie di agguati a civili da parte di palestinesi, non si piangerà mai abbastanza per ciò che successe venti anni fa. Il prossimo 4 novembre saranno infatti vent’anni dall’assassinio di Yitzhak Rabin. Con questo orrendo delitto fu annichilito un premier e un simbolo della migliore Israele. Ma soprattutto cadde con lui l’idea delle due legittime aspirazioni nazionali.



Cadde l’idea che su questa terra si confrontassero due legittime aspirazioni nazionali, e che per ambedue occorresse trovare posto. Da allora, nella politica israeliana, questa visione divenne minoritaria. Lo stesso accadde, per ragioni diverse, nel campo palestinese. Perché certo tale visione non può affermarsi finché si continuano a chiamare “shahìd” (martiri in arabo, ndr) coloro che uccidono a caso, finché si continuano a stampare carte di una Palestina senza lo Stato d’Israele, e finché non si riconosce che non ci può essere un collettivo diritto al ritorno per i “profughi” del 1948.

Perché l’assassinio di Rabin segna un tale spartiacque? Non solo per la sua drammaticità, ma soprattutto perché pose Israele e i palestinesi di fronte a un bivio: lanciarsi oltre l’ostacolo, o ripiegare. Ripiegarono. E quella crisi delle classi dirigenti che stava già incubando, esplose. Da parte israeliana non si fecero i conti con gli incitamenti di odio contro Rabin da parte dell’allora capo dell’opposizione Netanyahu, che non solo vinse le successive elezioni ma da allora inaugurò un ciclo vincente basato sull’inesistenza non tanto di un partner bensì di una questione nazionale palestinese. I conti di fronte a tali traumi, come dimostra la storia italiana con il delitto Moro, non sono però eludibili. E non si possono certo fare solo con un film, come il bellissimo “Gli ultimi giorni di Rabin” di Amos Gitai presentato a Venezia. Da parte palestinese, del resto, la parabola fu speculare. Mancando quel Rabin fino ad allora attaccato, Arafat creò l’alibi perfetto per addossare al campo avverso tutte le colpe, mascherando in questo modo l’involuzione della leadership palestinese, la sua incapacità al vero compromesso e ad affrontare quel cambio di narrativa nazionale necessario per creare il nuovo Stato. Per ragioni diverse, i due progetti nazionali entravano in crisi. Cambiava il mondo, invecchiavano i vecchi leader, e i nuovi si rivelavano più deboli dei vecchi di fronte all’incedere della Storia. Il risultato è stato una duplice crisi di identità. Ma mentre quella israeliana si gioca nel campo di uno Stato esistente, non è così per il campo palestinese. Aprendo in questo modo tremendi varchi alla disperazione, alla negazione della realtà e dell’altro, ed infine della vita. Si pensi all’insensatezza criminale di mandare dei ragazzi ad assaltare le reti di confine con Israele a Gaza. Oppure all’incoraggiamento di Hamas per gesti di terrore solitari contro civili nelle strade, magari uccidendo un papà e una mamma di fronte ai loro quattro piccoli in macchina. In questa voragine è caduta parte della gioventù palestinese, che sta dando via la propria vita e quella di chi incontra in una sorta di rivolta talmente erratica da rivelarsi un inno alla morte. Con dinamiche sempre più simili a quelle che ingrossano le file dell’Isis.

Malgrado questo sommovimento - non definibile Intifada perché manca di prospettiva politica - sia un gigantesco problema di sicurezza per Israele, non è qui la sua perniciosità. Ma è nella terribile corrosione delle fondamenta dello Stato d’Israele così come lo conosciamo. Se infatti si scolorano le identità nazionali in identità etniche sovranazionali, ciò porta un arabo israeliano a sentirsi solo arabo e non più israeliano. Di lì ad imbracciare un coltello e menare fendenti come ieri a Ra’ana e a Gerusalemme il passo può essere tragicamente breve. Ma questo piccolo passo rischia di spalancare un baratro per l’Israele che fu di Rabin, quello costruito da Ben Gurion lungo linee politiche e nazionali e non puramente etniche.

In quell’Israele un arabo-israeliano era prima israeliano e poi arabo, così come un ebreo. Se dovessimo assistere a questa inversione, avremmo l’impossibilità a coesistere. Chi del resto vorrebbe un vicino che solo per il fatto di essere arabo potrebbe accoltellare tuo figlio se esce di casa? Il risultato sarebbe uno Stato basato sulla separazione. La vita civile sarebbe tossica e impossibile per tutti. Come uscirne? Sharon aveva concepito, prima dell’ictus, un ritiro unilaterale di Israele anche dalla Cisgiordania. Un’idea da riprendere. Ne soffriranno i coloni israeliani e i profughi palestinesi del 1948, ma del resto tutti sanno essere questi i contorni di ogni futuro accordo. Non sarà la pace, oramai, un affare per le prossime generazioni. Soprattutto in questo Medioriente in fiamme. Ma almeno ci sarà il punto di riferimento di identità nazionali più certe. Solo così si potrà ricominciare a vivere, girando per strada senza guardarsi le spalle.