Comprendiamo a questo punto che il leader del principale partito di opposizione, contro cui è stato cucito quest’articolo, è una figura ben nota in Italia e nel mondo. Si tratta della signora Aung San Suu Kyi, che, figlia di un martire dell’indipendenza birmana, ha sposato un cittadino britannico e ha condotto per oltre vent’anni la battaglia per la democrazia pur avendo passato quindici di questi anni in prigione o agli arresti domiciliari. Una figura emblematica, un vero e proprio simbolo di una incredibile capacità di resistenza e di leadership politica e morale, anche se recentemente accusata di avere esercitato in modo troppo autoritario la guida del suo partito e di non avere preparato un articolato programma di governo.
Solo una tempra come quella della Signora San Suu Kyi può tuttavia essere in grado di fare cambiare strada alla Birmania. Una strada abbastanza complicata da comprendere perché la giunta militare, dopo avere oppresso il paese con un crudele pugno di ferro e con un isolamento totale dal resto del mondo, ha iniziato quattro anni fa una politica di apertura economica che ha ottenuto elevati livelli di sviluppo nelle aree urbane del paese, accompagnati tuttavia dal proseguimento dell’oppressione degli oppositori, da una crescente corruzione e dall’avere fatto di Myanmar il centro del traffico di droga e di ogni altro contrabbando tra i Paesi che le stanno attorno. La crescita dell’economia si è di fatto concentrata attorno al ristretto numero di coloro che controllano i centri di potere della capitale birmana e, soprattutto della città di Yangon (l’antica Rangoon) dove si sta accumulando tutta la nuova ricchezza del Paese. A questo si aggiungono crescenti tensioni di carattere religioso, tensioni che hanno prodotto veri e propri scontri armati.
È probabile che San Suu Kyi vinca le elezioni ma non possiamo certo dimenticare che nel 1990 le aveva già vinte e che, da allora ha trascorso molto più tempo in prigione che in libertà. Oggi è maggiormente protetta da un’opinione pubblica internazionale che ha finalmente portato il suo caso di fronte al mondo intero e tuttavia sappiamo anche quanto l’opinione pubblica sia più capace di provocare emozioni che non di essere in grado di agire all’interno di un Paese nel quale i generali, aiutati da una costituzione costruita su misura per loro, non hanno nessuna intenzione di abbandonare il potere. Oggi i rapporti di forza sembrano essere un poco migliori tanto che Aung San Suu Kyi ha messo in qualche modo le mani avanti dichiarando che, se vincerà le elezioni, guiderà il governo e ne assumerà il potere reale nonostante le contorsioni costituzionali. Il quadro descritto in precedenza ci mostra tuttavia quali difficoltà dovranno essere superate perché si possa concretizzare un reale cammino democratico in Myanmar.
Le elezioni birmane saranno quindi, in ogni caso, non il compimento ma solo l’inizio di un faticoso processo nel quale, se leggiamo nel passato, non mancheranno ulteriori tensioni e difficoltà.
L’Europa e l’Italia sono quindi chiamate ad esercitare, da domani in poi, un’attenta vigilanza su quello che avverrà in Myanmar perché in quel lontano Paese si sta combattendo una battaglia che interessa tutti noi e non solo i futuri equilibri politici dell’Asia.