Strategie del terrore. Il rischio di guerra santa nel conflitto fra ebrei e arabi

di Fabio Nicolucci
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Martedì 18 Novembre 2014, 22:55 - Ultimo aggiornamento: 23:58
Dal punto di vista analitico ciò che è più significativo nell’orribile massacro di ieri a Gerusalemme non è purtroppo il numero dei morti, ma il luogo dove è stato commesso:



una sinagoga. Ciò corrisponde ad una volontà precisa. Quella di trasformare sempre più il conflitto israelo-palestinese da politico a religioso, e dunque da negoziabile ad esistenziale. Questa ulteriore discesa nel cuore delle tenebre che stanno avvolgendo il destino di questi due popoli in un disperato abbraccio mortale, è voluta da Hamas.

Nonostante le recenti parole di Suha Arafat, vedova di Yasser, che ha ammonito a non scatenare una violenza da cui il popolo palestinese avrebbe molto - troppo - da perdere, Hamas spinge infatti in direzione contraria. E ripropone in altre forme lo stesso approccio dei razzi lanciati da Gaza in territorio israeliano: o noi, o voi. Nessun negoziato, ma negazione dell’altro. Uno “scontro tra civiltà” il cui primo effetto è quello di silenziare i riformisti e progressisti palestinesi e quelli israeliani, ridando preminenza e ruolo ad Hamas e indirettamente alla destra israeliana in un contesto di “guerra infinita”. Uno scenario che permette e rende funzionale a Netanyahu prenderne le misure, innalzando un “muro di ferro” militare e non politico che nel breve periodo difenda Israele e così scansando le legittime aspirazioni nazionali palestinesi. La pericolosità di tale tentativo è che esso va con la corrente. Sia per quanto riguarda il campo palestinese sia per quello regionale.



Nel campo palestinese infatti, l’aria sembra satura di frustrazione proprio come lo era allo scoppio della prima intifada. Il 9 dicembre del 1987 bastò un incidente stradale nel campo profughi di Jabalya, a Gaza, dove un guidatore israeliano travolse con il suo camion quattro passanti palestinesi. Oggi è un altro autista, questa volta un palestinese con carta d’identità israeliana dipendente degli autobus Egged, ritrovato lunedì mattina impiccato a Gerusalemme, a infiammare l’atmosfera. I palestinesi hanno infatti subito gridato all’omicidio di questo 32enne padre di due figli, indicando i colpevoli negli estremisti ebrei che appiccano fuoco alle moschee in Cisgiordania nella campagna terroristica denominata “questo è il prezzo”. E ieri Al Jazira titolava in arabo «“il giorno della rabbia” a Gerusalemme dopo l’impiccagione del palestinese», sostenendo che fosse stato “suicidato”.



Ma al di là di questo fatto, è nell’evanescenza della politica sostituita da frustrazione e rabbia che nasce il tentativo di una terza intifada. Anche perché la sostituzione del politico con il religioso come campo di battaglia è una tendenza anche regionale. Lo dimostra la forza con cui l’ISIS sta conquistando non solo terreno ma anche adepti, soprattutto tra le giovani generazioni. Svuotando Al Qa’ida. Come affrontare questa situazione? Mentre la prima intifada è stata quasi da subito politica e nazionale, e la seconda cominciata nel 2000 fu terroristica ed organizzata, la terza rischia di essere terroristica ed anarchica. Segnata dall’erraticità dei lupi solitari, e perfino dalla difficile rintracciabilità dei combattenti stranieri che si stanno esercitando con l’ISIS. Per questo invertire la tendenza e ridare forza alla politica, respingendo il sequestro del campo religioso da parte degli estremisti radicali, richiede uno sforzo non banale. A tutti noi. A destra come a sinistra. A destra, disfandosi del paradigma dello “scontro tra civiltà” nel rapporto con l’altro, sia esso un attore nazionale, un movimento o partito oppure un soggetto diverso, fosse pure l’ISIS. Un paradigma che sul breve periodo magari garantisce una tenuta di Israele ma che, sul lungo, in realtà la mette in pericolo. Come sottolineato più volte dalla comunità della sicurezza israeliana. A sinistra, disfandosi di litanie oramai vuote come la reiterazione di un processo di pace oramai defunto e da reinventare. Perché solo un suo nuovo paradigma può dare credibilità ad una risposta che punta sul lungo periodo. Quello della politica.



Il test più vicino sarà la probabile discussione di una mozione parlamentare di riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina, così come già avvenuto in altri paesi europei. Se essa avverrà secondo criteri lisi e simbolici, e non con nuove e innovative condizioni e scenari – per esempio con la condizione di accettare l’esistenza di Israele come stato ebraico e democratico, e la rinuncia al terrorismo pena la decadenza automatica – allora si tratterà non solo di un’occasione persa. Ma di un ulteriore scivolamento per la sinistra nella sua oramai storica impotenza, e per i due popoli nella spirale dell’odio identitario, senza vie di fuga e senza futuro.