L’America a due velocità, solo la politica non si rinnova

di Giuliano da Empoli
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Sabato 18 Aprile 2015, 22:19 - Ultimo aggiornamento: 19 Aprile, 00:05
L’avvio della campagna di Hillary Clinton per la Casa Bianca non potrebbe essere più modesto. Nessun discorso magniloquente, né arene colme di supporter in festa, né conferenze stampa a reti unificate. Solo un tweet e qualche incontro a porte chiuse nelle località più remote dell'America rurale. Nel campo avversario, intanto, anche Jeb Bush - il favorito tra i candidati repubblicani - fa di tutto per mantenere il profilo più basso possibile.



Il fatto è che entrambi - Hillary e Jeb - hanno da farsi perdonare un dettaglio piuttosto imbarazzante. Per venti degli ultimi ventisette anni la Casa Bianca è stata occupata da un Bush o da un Clinton. Se, nel 2016, a vincere fosse la moglie di Bill o il fratello di George W., un altro quadriennio andrà a sommarsi all’incredibile dominio delle due famiglie più potenti della storia americana. Il che sarebbe forse normale in Thailandia o in Argentina, ma stupisce un po' negli Stati Uniti.



Non solo perché siamo abituati a considerarli da sempre come la terra di tutte le opportunità. Ma anche perché, nell'ultimo quarto di secolo, l’economia americana è stata investita da una rivoluzione senza precedenti, che ha portato alla ribalta nuovi protagonisti, da Bill Gates a Google, spazzando via antichi primati e monopoli. Oggi, i cinque uomini più ricchi del Paese sono tutti self-made man, gente che si è fatta da sé. E nella classifica annuale degli americani più ricchi, la proporzione degli ereditieri è vistosamente diminuita dalla metà degli anni Ottanta in poi.



In pratica, negli ultimi decenni l’economia e la politica hanno seguito percorsi opposti. La prima si è sempre più aperta al contributo di outsiders, capaci di innovare rimettendo in discussione le vecchie gerarchie.



La politica, al contrario, è andata sempre più blindandosi, non solo nella corsa alla Casa Bianca, ma anche ai vertici del Congresso e perfino a livello locale.



Dietro questa divaricazione si nasconde il diverso ruolo giocato dalle risorse economiche. Nel settore privato, lo sviluppo di una infrastruttura sempre più sofisticata ha provocato quella che due analisti del settore, Lowell Bryan e Diana Farrell, definiscono una "trasfigurazione del capitale". Anziché essere un alleato degli interessi consolidati, il capitale è ormai disponibile ad ogni concorrente che abbia un vantaggio competitivo e che sia in grado di sfruttarlo. Chiunque disponga delle competenze e delle capacità necessarie per lanciare un progetto imprenditoriale valido, oggi è in condizione di reperire sul mercato i capitali che gli servono.



In ambito politico, invece, la disponibilità di denaro ha finito col trasformarsi in una muraglia invalicabile che separa gli insider dagli outsider. Il declino dell’attivismo civico e politico ha contribuito a far esplodere i costi delle campagne elettorali, sempre meno fondate sull’attività dei volontari e sempre più egemonizzate dai professionisti della comunicazione e del marketing. Nonostante il finanziamento pubblico del quale godono i partecipanti alla corsa presidenziale, si calcola che le spese elettorali si siano moltiplicate per dieci, dagli anni ottanta a oggi. E a prevalere sono le macchine da guerra di chi il potere l'ha già occupato in precedenza, Bush e Clinton in primis.



Ciò che sorprende è la relativa indifferenza che ha accompagnato questa involuzione. Sensibilissimi alla distribuzione del potere economico, imbattibili nel prevenire la formazione di monopoli e di rendite di posizione nel mondo degli affari, gli americani sembrano disposti a tollerare una sfera politica sempre meno democratica, all’interno della quale le rendite di posizione fanno premio sulle capacità individuali. A meno che non ci riservino anche per l'anno prossimo una sorpresa come l'exploit di Obama nel 2008.