Ma la strada per rilanciare la produttività è ancora lunga

di Oscar Giannino
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Mercoledì 3 Giugno 2015, 23:38 - Ultimo aggiornamento: 4 Giugno, 00:10
Eppur si muove. Il governo può tirare un sospiro di sollievo. Finalmente, coi dati preliminari di aprile diramati ieri dall’Istat e dopo due mesi in cui aumentava, scende il tasso di disoccupazione al 12,4%. In 12 mesi è calato dello 0,2%, il che numericamente significa solo 17 mila disoccupati in meno. Ma quel che rileva è la tendenza. Cala la disoccupazione giovanile ad aprile su marzo, e scende di un punto e mezzo al 40,9%. Aumentano gli occupati di 159mila unità rispetto a marzo e su base annua di 261mila unità, con un tasso di occupazione che in un mese sale dal 55,7 al 56,1%.

Nella stima di aprile crescono di 51 mila gli occupati giovani su marzo, e scendono di 44 mila unità i giovani inattivi. Mentre, nel primo trimestre, dopo 14 trimestri consecutivi scende per la prima volta il numero totale di chi cerca lavoro, che era giunto a 3,3 milioni mentre ora cala di 145 mila unità. Il calo dei disoccupati, altra buona notizia, è più forte al Sud con 96mila unità che al Nord, e riguarda sia giovani che donne.

Con aprile, sostiene il governo, si rafforzano i primi segnali della piena attuazione concomitante del Jobs Act e della rilevante decontribuzione offerta alle imprese a gennaio. Certo, è molto lunga la strada per colmare il gap accumulato nella crisi, mentre intanto l’euro ha ripreso a salire insieme ai rendimenti dei titoli pubblici. Ma dei segnali positivi finalmente si vedono, e ora bisogna sperare che i mesi successivi li confermino e rafforzino.

Cerchiamo a questo fine anche di vedere quel che i dati positivi rivelano ancora, delle criticità vecchie e nuove che attendono di essere risolte.

Il primo avviso da tenere ben presente è che aprile è un mese in cui partono contratti stagionali. E che per questo, finché non abbiamo i dati comprensivi dei due mesi a seguire, la forte stagionalità consiglia di tenere intanto come punto di riferimento non il confronto congiunturale, ma quello tendenziale dei dati acquisiti del primo trimestre su base annua, che comunque vedevano 90 mila occupati in più e 144mila disoccupati in meno rispetto al primo trimestre 2014 (e, va detto, però, anche 210 mila occupati in meno rispetto ai dati del dicembre 2014). Se osserviamo i dati ormai stabilizzati del primo trimestre, i 107mila lavoratori dipendenti aggiuntivi rispetto al primo trimestre 2014 sono composti da un numero di rapporti a termine che, con 76 mila unità aggiuntive, è ancora doppio rispetto a quello dei permanenti. Mentre i dipendenti permanenti crescono solo dello 0,2% su base annua, quelli a termine del 3,5%.



E in continuità dal 2010 in avanti, fino a marzo compreso, è continuata la crescita degli occupati a tempo parziale. La cosa più significativa, purtroppo, è che l’aumento dipende dal part time involontario, ossia da rapporti di lavoro accettati a orario ridotto in mancanza di contratti a tempo pieno. Il part time involontario era il 62,7% del totale del lavoro a tempo nel marzo 2014, un anno dopo è salito al 64,1%. Vedremo se nei mesi a venire il dato è destinato a flettere.

Altra considerazione interessante è che il calo della disoccupazione più forte al Sud che al Nord non va di pari passo con la ripresa del Pil, più forte al Nord che al Sud. C’è un evidente rischio di aumento dell’occupazione meridionale a bassa produttività, coerente purtroppo a ciò che abbiamo visto negli anni che abbiamo alle spalle. E’ un altro punto critico su cui lavorare. E anche nel Nord del resto la ripresa del mercato del lavoro appare disomogenea. In Veneto si registra il massimo di caduta della disoccupazione, ma l’occupazione scende. Mentre in Piemonte siamo in presenza del massimo di ripresa dell’occupazione, ma la disoccupazione resta ferma. Bisogna anche sempre ricordare che, con centinaia di migliaia di cassintegrati, le imprese che li riassorbono non diminuiscono il numero di disoccupati, visto che nelle statistiche figurano come occupati.



Un dato su cui riflettere è quello generazionale. Nel primo trimestre 2015 gli occupati over 55 anni erano 267.000 in più rispetto allo stesso periodo 2014. In sostanza, la crescita annua di occupazione del primo trimestre si realizza grazie a un apporto sproporzionato di chi sta tra 55 e 64 anni. Non solo: i senior sono campioni anche nel calo degli inattivi. Ed è un dato coerente con le indagini svolte tra le imprese nel campione Excelsior di Unioncamere, sia in quelle di grandi territoriali di Confindustria. Interrogate sugli effetti dell’aumento di domanda di lavoro dovuto a congiuntura, Jobs Act e decontribuzione, le imprese segnalavano di cercare innanzitutto in questo 2015 lavoratori dotati di skills, cioè più facilmente nelle coorti di età avanzata. Un altro problema su cui lavorare, perché scuola e università non formano i profili che le imprese ricercano, e i giovani rischiano di restare più a casa dei cinquantenni anche ora che il mercato del lavoro riprende.



Se adesso c’è una cosa da evitare, è quella di piegare questi dati a contingenti ragioni di lotta politica. Sia negando quel che di buono finalmente annunciano; sia esaltandolo come se potessimo sapere con certezza che cosa ci riserva il futuro. Sono entrambi errori da cui guardarsi. La ripresa italiana ha bisogno di grande acribia nel guardare i dati. E di mano ferma perché di riforme per la produttività ne servono ancora molte.