La privacy perduta tra social e terrorismo

di Alessandro Campi
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Lunedì 31 Agosto 2015, 00:12 - Ultimo aggiornamento: 12:57
Già all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle ci fu chi profetizzò che il prezzo più alto pagato dall’Occidente al terrorismo sarebbe stato non in vite umane e in devastazioni materiali, ma in qualità della vita. La necessità di difenderci dal rischio di attacchi militari e attentati avrebbe comportato controlli sempre maggiori sulle nostre esistenze e sui nostri movimenti.

In cambio di maggiore sicurezza avremmo dovuto rinunciare a parte delle nostre libertà e accettare l’idea di essere osservati e monitorati anche nella sfera privata (ovviamente nel nostro esclusivo interesse). All’inizio questa prospettiva suscitò un certo allarme. Non mancarono prese di posizione che paventavano, con toni preoccupati, un’involuzione autoritaria delle nostre democrazie liberali e la messa in discussione di un modello culturale e sociale, quello in senso lato capitalistico-occidentale, che storicamente si è costruito sull’esaltazione delle libertà individuali e della sfera privata in opposizione a quella pubblico-statale.

Ma alla fine ci siamo assuefatti all’idea che per difendersi dalle minacce che vengono dai fondamentalisti religiosi si deve sacrificare qualcosa del nostro abituale modo di vivere. Anche perché la guerra al terrorismo, da situazione eccezionale e contingente, si è nel frattempo cronicizzata, è divenuta una realtà con la quale, secondo molti osservatori, saremo costretti a convivere per un lungo tempo.

Nessuno si è dunque sorpreso alla notizia che per viaggiare in Europa sui treni a lunga percorrenza saranno presto necessari i biglietti nominativi e ci si dovrà sottoporre a procedure di sicurezza simili a quelle utilizzate negli aeroporti.

Il mancato attentato di qualche giorno fa sulla linea Amsterdam-Parigi ha spinto i governi europei all’adozione di misure che puntano alla tracciabilità elettronica dei passeggeri e alla creazione di un registro globale del traffico ferroviario. Nessuno potrà spostarsi da un Paese all’altro senza che le autorità e le forze di polizia lo sappiano: un modo per scoraggiare, così si spera, i malintenzionati e per rendere più tranquilli i nostri viaggi. Ma poiché queste misure potrebbero non bastare, si sta ragionando anche sulla possibilità – tenuto conto dell’altra emergenza che sta guastando i nostri sonni, quella legata ai flussi migratori incontrollati di profughi e clandestini verso l’Europa – di rispristinare quei controlli di polizia alle frontiere la cui abolizione era stata presentata come uno dei più grandi risultati del processo di integrazione del Vecchio continente.

Il paradosso è che rispetto a vent’anni fa siamo sicuramente meno liberi e sottoposti a controlli sempre maggiori, senza che per questo sia aumentata la nostra percezione di vivere in un mondo almeno più sicuro. Del resto se non fossero nel frattempo aumentate la paura, l’ansia e l’angoscia non avremmo assistito al successo di quei partiti e movimenti politici che lucrano consensi proprio sulla base di questi sentimenti collettivi.

Ma prendersela con i terroristi per averci costretto a sottoporre le nostre vite ad una rete di sorveglianza sempre più fitta e ossessiva sarebbe sbagliato. Alla rinuncia di ciò che avevamo di più caro – la riservatezza riguardo i nostri sentimenti e affetti, la difesa della sfera domestica da sguardi indiscreti, l’intangibilità della dimensione privata dinnanzi a qualunque intrusione da poteri esterni ed anonimi – abbiamo infatti dato un contributo attivo e volontario dal momento in cui, resi euforici dai progressi della tecnologia digitale, abbiamo consegnato alla rete e ai social network tutto di noi: gusti e preferenze, umori e passioni, immagini personali e informazioni vitali sulla nostra vita quotidiana.

Ci siamo messi a nudo, spesso rinunciando persino al pudore, pensando così di arricchire la nostra rete di relazioni sociali e di soddisfare il nostro legittimo desiderio ad essere riconosciuti, apprezzati e tenuti in considerazione dal prossimo.

È dell’altro giorno la notizia che Facebook ha raggiunto un miliardo di collegamenti, scambi e contatti nell’arco di un solo giorno. Un persona su sette, tra quanti abitano il pianeta, mette quotidianamente in rete ciò che pensa su ogni possibile argomento, notizie sulla musica che ascolta e sui film che vede, le foto dei luoghi dove trascorre le vacanze o dove momentaneamente si trova, le immagini di sé in ogni posa e quelle dei propri amici o parenti, delle feste, riunioni e incontri alle quali si partecipa. Tutto ovviamente indirizzato ai propri amici e interlocutori, ma tutto – come si sa – a beneficio soprattutto di chi raccoglie questa massa sterminata di informazioni su scala globale per ricavarne preziose informazioni commerciali, per organizzare banche dati che sono anche un gigantesco sistema di schedatura.

Anche in questo caso con un effetto parodossale: ci lasciamo classificare nei gusti e nelle preferenze soggettive dai social network pensando attraverso di essi di poter esaltare attraverso la nostra personalità e il nostro spirito creativo, di poter aumentare le nostre conoscenze e la nostra capacità di interlocuzione, mentre in realtà nel mondo stanno crescendo la solitudine e forme di protagonismo sempre più effimere e frustranti.

Insomma, da qualche parte nel mondo c’è qualcuno – non si sa bene chi – che potenzialmente sa tutto di noi, che ci controlla e ci monitora, lasciandoci solo lo spazio di qualche pensiero segreto. E’ un mondo finalmente trasparente e alla fine anche libero dalle minacce o un incubo contro il quale prima o poi ci rivolteremo?