Prendete il caso della scuola. I grandi cortei pacifici che hanno inondato ieri le piazze delle maggiori città italiane non hanno certo nulla in comune con le proteste dei No-Expo. E i partecipanti alle manifestazioni si offenderebbero a giusto titolo se qualcuno osasse anche solo remotamente paragonarli allo sconsiderato ragazzo milanese. Ma dopo decenni di sfilate sempre uguali, con striscioni e slogan identici, contrapposti a governi e riforme che non potrebbero essere più diversi fra loro, è difficile non farsi venire un dubbio.
Il dubbio che lo sciopero, per i sindacati della scuola, sia diventato un riflesso pavloviano. Non appena qualcuno prova a mettere mano al settore, si tirano fuori bandiere e megafoni: «giù le mani dalla scuola», «fuori i privati dalle classi», «i nostri figli non sono una merce».
Anche quando il governo investe, anziché tagliare; quando assume, anziché licenziare; quando reintroduce materie (la musica, la storia dell’arte) anziché sopprimerne. Poco importa. L'essenziale è affermare il principio che «la scuola non si tocca». Con gli studenti schierati a fianco degli insegnanti nella solita postura dei tacchini che festeggiano il Natale, pronti a immolarsi contro la valutazione dei presidi e dei maestri - forse nell’ingenua speranza che torni anche per loro la stagione degli esami di gruppo e del sessanta politico.
Il risultato è un paradosso. Laddove il mondo del lavoro ha metabolizzato senza troppi scossoni una riforma epocale come il Jobs Act, imposto per decreto e a passo di carica, la scuola si chiude a riccio di fronte ad una proposta di cambiamento assai più soft: frutto di larghissime consultazioni, ripetutamente modificata in Parlamento e tuttora oggetto di negoziazioni fin troppo aperte. Tra istituzioni che hanno faticosamente iniziato a cambiare, la scuola rischia così di trasformarsi nell’ultima trincea dell’immobilismo.