La scuola prigioniera dei soliti “no”

di Giuliano da Empoli
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Martedì 5 Maggio 2015, 23:45 - Ultimo aggiornamento: 6 Maggio, 10:48
Gliene hanno dette di tutti i colori a Mattia, l’aspirante black bloc padano che per le strade di Milano voleva «spaccare tutto» perché «la protesta è la protesta» e in ogni caso «una bellissima esperienza». Sui social network è diventato l'eroe di parodie esilaranti, mentre in televisione e sui giornali si è trasformato nell’emblema della vacuità di un’intera generazione. Eppure la protesta come riflesso condizionato fine a se stesso, gli slogan scanditi per abitudine più che per convinzione, la manifestazione come rituale catartico generato da una frustrazione accumulata nel tempo, non sono fenomeni così rari.

Prendete il caso della scuola. I grandi cortei pacifici che hanno inondato ieri le piazze delle maggiori città italiane non hanno certo nulla in comune con le proteste dei No-Expo. E i partecipanti alle manifestazioni si offenderebbero a giusto titolo se qualcuno osasse anche solo remotamente paragonarli allo sconsiderato ragazzo milanese. Ma dopo decenni di sfilate sempre uguali, con striscioni e slogan identici, contrapposti a governi e riforme che non potrebbero essere più diversi fra loro, è difficile non farsi venire un dubbio.

Il dubbio che lo sciopero, per i sindacati della scuola, sia diventato un riflesso pavloviano. Non appena qualcuno prova a mettere mano al settore, si tirano fuori bandiere e megafoni: «giù le mani dalla scuola», «fuori i privati dalle classi», «i nostri figli non sono una merce».



Anche quando il governo investe, anziché tagliare; quando assume, anziché licenziare; quando reintroduce materie (la musica, la storia dell’arte) anziché sopprimerne. Poco importa. L'essenziale è affermare il principio che «la scuola non si tocca». Con gli studenti schierati a fianco degli insegnanti nella solita postura dei tacchini che festeggiano il Natale, pronti a immolarsi contro la valutazione dei presidi e dei maestri - forse nell’ingenua speranza che torni anche per loro la stagione degli esami di gruppo e del sessanta politico.



Il risultato è un paradosso. Laddove il mondo del lavoro ha metabolizzato senza troppi scossoni una riforma epocale come il Jobs Act, imposto per decreto e a passo di carica, la scuola si chiude a riccio di fronte ad una proposta di cambiamento assai più soft: frutto di larghissime consultazioni, ripetutamente modificata in Parlamento e tuttora oggetto di negoziazioni fin troppo aperte. Tra istituzioni che hanno faticosamente iniziato a cambiare, la scuola rischia così di trasformarsi nell’ultima trincea dell’immobilismo.