Regina Coeli, vittoria e sconfitta dello Stato in 24 ore

di Paolo Graldi
4 Minuti di Lettura
Martedì 21 Luglio 2015, 00:35
Una fettuccia di tela ricavata in gran fretta dal lenzuolo strappato, un cappio improvvisato. Allacciato alle sbarre più alte, all’ingresso della cella di “grande sorveglianza” per stringere una disperazione incontenibile: pochi, lunghissimi attimi e poi il corpo che penzola inanimato, senza più vita, tardivi, vani i soccorsi. Ludovico Caiazza, “presunto omicida” del gioielliere Giancarlo Nocchia, ferocemente assassinato nel suo negozio-laboratorio nel pomeriggio del 15 luglio, arrestato al termine di un’indagine lampo dei carabinieri di Roma, un piccolo capolavoro investigativo, se ne è andato confessando a suo modo a una psicologa del carcere e poi al suo avvocato, la sua colpa. Senza più droga, tremante d’astinenza (fino all’arresto lo teneva in piedi il metadone), depresso, sconfitto, travolto dagli eventi da lui stesso innescati, Caiazza ha “confessato” il suo atroce delitto. Non voleva uccidere quel brav’uomo di settant’anni che gli si era opposto con tutte le energie racchiuse nella disperata difesa della vita e dei gioielli di sua creazione.



Voleva, ripete con lo sguardo fisso nel vuoto, voleva solo ferirlo con un coltello, ma per vincere quella imprevista e orgogliosa resistenza aveva perso ogni lume della ragione e colpito la vittima al capo con un oggetto pesante, squarciandogli il cranio, uccidendolo all’istante. Lo ha abbattuto per portare a termine la razzia dei gioielli e poi scappare con quella ridicola parrucca, infilata sulla testa per camuffarsi e, con gli occhiali scuri, rendersi irriconoscibile. Feroce e ingenuo, un balordo armato di violenza cieca, la stessa con la quale ha costruito la sua disgraziata esistenza, rapine, spaccio, eroina o derivati non importa iniettati in ogni brandello di vena utile.



«Gli ho preso il telefonino perché non volevo che chiamasse aiuto», ha biascicato agli interlocutori per rendersi credibile.

Vittorioso con quell’indagine impeccabile e anche con quel tratto di sensibilità umana e speciale dimostrata dalle visite connotate da intensa vicinanza ai parenti, alla moglie, ai figli, ai cognati, del generale Angelo Agovino, comandante dell’Arma nel Lazio, lo Stato con la morte del detenuto esce sconfitto nel percorso verso una giustizia compiuta.



Un alto ufficiale che sa assolvere anche al difficile compito di mostrare una presenza discreta, certo non di facciata, una presenza che consola ma anche che mostra un impegno di tanti uomini in divisa tutti protesi a chiudere il cerchio al più presto. Si dispiega una sorta di paradosso nel quale l’azione investigativa rapida e vincente ha dimostrato che non c’è impunità possibile, che gli strumenti dell’indagine, anche quella più sofisticata e articolata, hanno il potere di rassicurare e insieme di ammonire chi pensasse di farla franca.



La morte di un detenuto, ancorché accusato di un delitto efferato e inescusabile, che pure può produrre indifferenza e in qualcuno persino compiacimento, resta un vulnus. Perché la colpa ha bisogno di una sentenza e, questo va preteso con fermezza, di una espiazione senza sconti: la società, da Beccaria in poi, dimostra così che è la giustizia e non la vendetta a rappresentare la forza della legge. Un maledetto accidente ha chiuso con un lutto inutile la sciagurata vita di quest’uomo ma ciò lascia intatte le domande su come, pure in un reparto di “Grande sicurezza”, in pochi minuti, si può organizzare la propria morte. I detenuti, qui, vengono sorvegliati a vista, una guardia ne ha in “carico” centoventi e passa davanti alle celle ogni quindici minuti, chi dice anzi ogni sette minuti.



Davvero la sorveglianza era adeguata? Rigurgita la vecchia e sacrosanta polemica sugli organici, due inchieste una interna del Dap e un’altra della Procura della Repubblica accerteranno eventuali responsabilità o omissioni di qualche genere. Certo, la contabilità dei suicidi in carcere non rassicura: 858 morti dal 2000, 21 dall’inizio dell’anno. Problemi personali che si abbattono insopportabili con lo choc della detenzione? Può darsi, anzi certamente la condizione del recluso è spesso strangolata da vicende personali.



Detenzione al limite del sopportabile, come ci viene detto anche in sede Ue, con richiami e multe. Il fenomeno, nelle sue diverse componenti è tuttavia assai serio, escludendo che non vi sia mai un valore aggiunto di dispotismo afflittivo non consentito. Che però non va messo nel conto. Nel caso di Caiazza l’incontro con la psicologa del carcere e poi con l’avvocato sembrano aver assicurato un mantello protettivo al detenuto, travolto dal precipitare degli eventi. La carenza, dunque, è casomai strutturale, riguarda il personale, probabilmente anche le tecnologie del controllo ravvicinato. Che scarseggiano.



“Reato estinto per sopravvenuta morte del reo”, con la formula di rito sulla copertina azzurra del fascicolo intestato alla Procura della Repubblica di Roma il caso della rapina di via dei Gracchi prenderà la via dell’archivio. Restano aperte le indagini dei carabinieri perché le scorribande criminali di Ludovico Caiazza nel quartiere dello shopping potrebbero rivelarsi numerose.



Nell’ultimo saluto all’orefice che tutti conoscevano e stimavano era ammirevole la compostezza della moglie Piera, del figlio Gianluca e dei fratelli Paolo e Rita e dei commercianti del quartiere che lasciano cadere parole pesanti sull’insicurezza dentro la quale sono costretti a vivere giorno per giorno, in un clima di assedio della piccola e meno piccola criminalità. Si torna a invocare la polizia e i carabinieri di prossimità, una deterrenza visibile, vistosa, pronta, una soluzione adottata e poi svanita quasi del tutto. La sicurezza è un prodotto e dunque costa. È un prezzo, tra i tanti, che va pagato. E questo volentieri.