Da un punto di vista simbolico è una rivoluzione. Nel mondo, i direttori dei nostri musei più importanti contano più dei ministri (in teoria, siamo considerati una superpotenza culturale…). Dei bizantinismi delle nostre vicende politiche, all’estero, s’interessano pochissimo. Ma la cultura è tutta un’altra storia: quella è da prima pagina del New York Times. L’immagine di una squadra finalmente selezionata con criteri competitivi - un bando di gara internazionale, una commissione giudicatrice di alto livello - è dirompente. Dà l’idea che, per la prima volta, l’Italia sia pronta a fare sul serio. Il ritardo che abbiamo accumulato nel campo dei musei è spaventoso. Basta fare un giro in qualsiasi città europea per rendersene conto.
Nel corso degli ultimi anni, i principali musei del continente hanno cambiato pelle. Si sono trasformati in multinazionali della cultura, moltiplicando gli spazi e le attività, puntando sulla formazione e sulle nuove tecnologie, esportando mostre e progetti in tutto il mondo. Basta guardare alla Francia. Dalla fine degli anni ottanta a oggi, il Louvre ha triplicato le superfici espositive (180 mila metri quadri) e i visitatori (oggi 9 milioni) e ha firmato un accordo strategico con Abu Dhabi in cambio di un miliardo di euro che gli ha permesso di investire ancora di più sulla ricerca e di aprire una nuova sede nel nord della Francia. Nel frattempo, Il Centre Pompidou ha aperto una sede a Malaga e il Musée d'Orsay realizza il 10% dei propri ricavi esportando mostre all’estero. Lo stesso è accaduto nella maggior parte degli altri paesi europei: la globalizzazione ha investito il mondo dei musei e la vecchia Europa - rimasta indietro su tanti versanti - almeno su questo fronte ne ha tratto beneficio.
Non così l’Italia. Qui, il tempo sembra essersi fermato e alcuni dei musei più importanti del mondo hanno continuato ad essere gestiti con i criteri di un ufficio della motorizzazione civile, nel migliore dei casi. Ora, finalmente si cambia e, com’è naturale, il cambiamento porta con sé le solite resistenze. C’è chi dirà che la retribuzione offerta ai nuovi direttori (tra i 78 e i 145 mila euro) era troppo bassa per mobilitare candidati di primissimo livello. È vero, ma il prestigio dei nostri musei ha in parte compensato questa debolezza, attirando professionisti fortemente motivati da tutta Europa. C’è chi dirà che i direttori stranieri sono un sintomo di provinciali
Il sistema è stato blindato per troppo tempo. Sarà uno shock salutare per la foresta pietrificata dei nostri beni culturali. Anzi, è l’occasione per innestare l’avanti tutta. A questo punto, la vera sfida è un’altra e riguarda tutti i nuovi direttori, italiani e stranieri. Abbiamo detto che si tratta di venti marziani. Figure esterne, nuove (salvo poche eccezioni), paracadutate al vertice di strutture abituate ad una gestione di tipo ministeriale, spesso da vecchi satrapi, più che manageriale. Alla testa il segnale è molto forte, ma il corpaccione dei beni culturali resta più o meno lo stesso. I direttori godranno di un’autonomia accresciuta, rispetto al passato, ma la struttura ministeriale, le soprintendenze e i sindacati sono sempre quelli. A seconda di come procederà il cantiere della riforma della pubblica amministrazione, i magnifici venti potranno diventare l’avanguardia di una svolta epocale oppure fare la fine del marziano di Flaiano. Quello che all’inizio occupa tutte le prime pagine e poi, nel giro di qualche mese, rimane solo, ignorato da tutti salvo dai monelli romani che lo perseguitano per strada (A marziano!…).