Mafia, Riina intercettato in carcere: «Il telecomando era nel citofono, Borsellino azionò la bomba che lo uccise»

Paolo Borsellino - Toto Riina
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Mercoledì 12 Marzo 2014, 12:28 - Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 20:48
Dalle intercettazioni delle conversazioni in carcere di Tot Riina emerge che il telecomando usato per la strage in cui perse la vita Paolo Borsellino sarebbe stato piazzato nel citofono dell'abitazione della madre del giudice: il giudice, quindi, premendo il pulsante avrebbe azionato lui stesso la bomba piazzata nella Fiat 126, che non lasciò scampo al magistrato e ai cinque poliziotti della scorta. Il boss, come riporta repubblica.it, l'avrebbe confidato al detenuto Alberto Lo Russo nel novembre scorso.



Nessun pentito ha mai chiarito, finora, chi abbia azionato il telecomando usato per l'eccidio di via D'Amelio. Finora gli investigatori ritenevano che fosse stato il boss Giuseppe Graviano, nascosto a poca distanza. Ora i pm di Caltanissetta, che hanno riaperto le indagini sulla strage, stanno cercando di verificare le ultime rivelazioni di Riina, anche se, a distanza di 22 anni, sarà molto complesso riuscire a venire a capo del mistero.



Riina: fu un colpo di genio. «Fu un colpo di genio»: così il boss Totò Riina commentò con Lorusso, detenuto con cui per mesi ha condiviso in carcere l'ora d'aria, la trovata di piazzare il telecomando nel citofono del palazzo della madre del magistrato. La conversazione risalirebbe allo scorso mese di agosto. Non è la prima volta che il capomafia corleonese si vanta delle proprie azioni stragiste. Nelle lunghe chiacchierate con Lorusso, il boss alterna minacce ai magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia con ricordi dell'epoca delle bombe mafiose: «Io ho vinto proprio - dice - ho vinto da strafare». E rivendica, con toni irridenti, gli attentati di Capaci e via D'Amelio e, tra gli altri, gli omicidi del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e del giudice Rocco Chinnici.



Il pentito Tranchina: la strage di via D'Amelio mi ha sconvolto la vita. «La strage in cui morì il giudice Borsellino, ma anche fatti come l'attentato al vicequestore Germanà, sono fatti che mi hanno sconvolto la vita. Io dovevo solo occuparmi della latitanza di Graviano, mi sono ritrovato in mezzo ad altre cose»: è questo lo sfogo del pentito Fabio Tranchina che oggi ha deposto al processo sulla trattativa Stato-mafia nell'aula bunker di Rebibbia. Tranchina, per tre anni inseparabile guardaspalle del boss Giuseppe Graviano, ha risposto alle domande dei pm Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia.

Prima di lui ha deposto l'ex collaboratore di giustizia Paolo Bellini. Il pentito, reclutato come addetto alla sicurezza del boss dal cognato Cesare Lupo, faceva da autista a Graviano nei suoi spostamenti. Il giorno dell'arresto del padrino corleonese Totò Riina, il 15 gennaio 1993, Tranchina avrebbe portato Graviano a un summit con il capomafia.




«Graviano mi disse che eravamo garantiti». «Il giorno dell'arresto di Totò Riina - ha detto Tranchina - Graviano era molto giù e mi disse: "Noi siamo tutti figli di questo cristiano. Ora potrebbe scoppiare una guerra, ma tu stai tranquillo. Con Riina abbiamo preso degli impegni. Noi abbiamo le nostre garanzie. O fanno quello che diciamo noi o gli rompiamo le corna". Io non chiesi nulla, mi limitati ad ascoltare. Quando parlò di garanzie indicò verso l'alto con la mano. Quando Graviano disse che avevamo degli impegni presi alludeva alle stragi commesse e a quelle che si sarebbero dovute compiere. Mentre quando disse che forse poteva scoppiare una guerra voleva dire che in Cosa nostra c'erano due anime: una stragista e un'altra no. Graviano mi disse di essere certo che che nel covo in cui incontrava Riina non c'erano microspie perché altrimenti il blitz l'avrebbero fatto lì e non avrebbero arrestato Riina altrove, visto che nel nascondiglio avrebbero potuto prendere altri mafiosi e visto che c'erano tanti soldi che si poteva comprare tutta la Sicilia. Sulle garanzie a cui accennò Graviano non approfondii il discorso, né mi fece i nomi dei soggetti che dovevano fare quel che dicevamo noi».
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