Diffondere l'italiano per contare nel mondo

di Romano Prodi
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Sabato 3 Ottobre 2015, 23:40 - Ultimo aggiornamento: 4 Ottobre, 00:05
A volte arrivano sotto gli occhi notizie apparentemente trascurabili ma che ci spingono a riflettere. Questo mi è capitato di recente nel leggere alcune tabelle sui dati riguardanti le lingue più parlate e le lingue più studiate nel mondo. Trascurando gli aspetti più scontati (che la lingua più parlata è ovviamente il cinese-mandarino e che la lingua più studiata è l'inglese) mi hanno colpito le classifiche che riguardano l'italiano.

Le complicate statistiche (che contengono diverse definizioni delle lingue stesse) sono comunque concordi nel classificare l'italiano tra il quattordicesimo e il ventesimo idioma adottato come prima lingua sebbene lo pongano sorprendentemente in una posizione decisamente più avanzata (intorno al sesto-settimo posto) nella classifica delle lingue straniere più studiate.

Una constatazione per me consolante ma pure sorprendente, vista l’esiguità dei mezzi che l'Italia impiega nell'insegnamento della nostra lingua nei Paesi stranieri, la perenne crisi finanziaria delle poche scuole italiane all’estero e le scarse risorse messe a disposizione della “Dante Alighieri” rispetto alle analoghe istituzioni degli altri Stati.

A questi dati non certo esaltanti aggiungo che, secondo la mia esperienza, la pratica della lingua italiana è più spesso diffusa tra gli anziani, mentre lo è di meno tra i giovani. Questo sia nei Paesi ad emigrazione più antica sia dove, come in Eritrea, Albania o Tunisia, si sono affievoliti i rapporti diretti.



O nelle realtà dove è crollata la penetrazione del nostro sistema televisivo, che è uno dei principali vettori di ogni lingua.

I veri esperti in materia si sono affrettati a spiegarmi che la forza dell’insegnamento dell’italiano nel mondo, nonostante le vistose mancanze rilevate in precedenza, deriva dal fatto che la nostra lingua è di importanza fondamentale per chi si interessa di musica, di arte o di cucina, e che l'italiano è ancora, anche se in modo non esclusivo e calante, la lingua di riferimento del mondo cattolico, non solo di una parte notevole delle gerarchie ma anche di molte tra le strutture, le organizzazioni e i movimenti che fanno riferimento alla Chiesa di Roma.

Riflettendo su questi dati sono tornato indietro di qualche anno quando, in uno dei lunghi intervalli dei vertici di Bruxelles, rimproveravo con amichevole ironia al presidente francese Chirac il fatto che, in uno dei grandi incontri annuali della francofonia, il presidente della riunione stessa (nell’occasione di nazionalità vietnamita) avesse avuto bisogno di un interprete per intendersi con gli interlocutori francesi. Con insolita pazienza il presidente Chirac mi spiegò che la francofonia si serviva della lingua francese, e se necessario degli interpreti, non solo per rinforzare la conoscenza della lingua ma per mantenere e accrescere i rapporti culturali, politici ed economici fra Paesi che l’uso generale o parziale di una lingua comune aveva in passato avvicinato. E, dopo avermi sottolineato l'utilità di tali legami per il presente e per il futuro mi consigliò di iniziare la costruzione di una "italofonia", mettendo insieme coloro che, in conseguenza della storia, della prossimità geografica, di vicende politiche e di flussi migratori, ancora condividevano il possesso o il desiderio della lingua italiana.

Quasi per gioco ci mettemmo ad elencare questi possibili Stati, un elenco che si allungava a dismisura, forse ancora più del prevedibile, comprendendo la Svizzera, la Slovenia, la Croazia, la Tunisia, l'Albania, l'Eritrea, la Libia, l'Etiopia, il Brasile, l'Argentina, il Venezuela e non ricordo bene quali altri Paesi con i quali un rapporto regolare ed istituzionale con la lingua italiana avrebbe fortemente contribuito a rinsaldare ed estendere le reciproche relazioni.

Anche se le vicende della vita mi hanno impedito di dare concretezza a questo progetto, ho riflettuto varie volte sulla sua utilità: la casuale lettura dei dati sul diffuso "desiderio" di apprendimento dell’italiano mi spingono a ritenere utile ripensare anche oggi alla fattibilità di questo progetto. Una riflessione che non nasce certo da un rigurgito di provincialismo, di cui già siamo abbondantemente forniti, ma dall'utilità di rafforzare legami che già esistono e che si andrebbero progressivamente perdendo senza un richiamo regolare e collettivo. Con questo non si vuole certo diminuire l'importanza dello studio dell’inglese e delle altre lingue straniere da parte dei nostri concittadini: l’intenzione è solo quella di custodire e fare fruttificare un nostro patrimonio insieme a coloro che desiderano condividerlo.

Il mondo globale, per essere vivibile, ha bisogno anche di questi rapporti speciali che ci ricordano il passato ma che ci aiutano nello stesso tempo ad affrontare il futuro.