L'errore di utilizzare le intercettazioni come prove

di Cesare Mirabelli
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Giovedì 2 Aprile 2015, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 00:14
È possibile assicurare un equilibrio tra la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, che la Costituzione garantisce come diritto inviolabile, e l’esigenza di accertare e di perseguire reati ricorrendo anche ad intercettazioni che limitano quel diritto?

A stare alla ricorrente esperienza, sembrerebbe che non sia proprio possibile garantire appieno questo diritto fondamentale e, allo stesso tempo, perseguire efficacemente reati. È frequente la diffusione del contenuto di conversazioni telefoniche intercettate. Anche conversazioni che non riguardano persone indagate e che hanno ad oggetto fatti che non costituiscono reato, per i quali quindi neppure si procede penalmente. La libertà di comunicare senza intrusioni, propria anche di chi è politicamente o pubblicamente esposto, viene così sacrificata suscitando giustificate reazioni. Potrebbe anche esserci un interesse politico o morale a conoscere quelle conversazioni, ma manca ogni rilievo penale o di sicurezza, il solo che giustifica l’intrusione nella sfera personale e la legittima limitazione di una libertà fondamentale.



D’altra parte ogni iniziativa legislativa orientata a restringere il campo delle intercettazioni, o della loro diffusione, suscita le immediate reazioni di chi pone l’accento sull’importanza che esse hanno per le indagini, le quali rimarrebbero prive di uno strumento essenziale di conoscenza. Inoltre, rientrerebbe nella libertà di stampa e nel diritto di cronaca informare di quanto è racchiuso in provvedimenti giudiziari, i quali talvolta contengono antologie di intercettazioni. Bisogna dunque arrendersi e considerare inevitabile il conflitto tra il diritto dell’individuo di comunicare liberamente, senza intrusioni e diffusione del contenuto della comunicazione, e l’interesse pubblico a perseguire reati e informare dei processi in corso?

Questo conflitto può essere superato se si modifica radicalmente la prospettiva. Sino ad ora l’attenzione è stata rivolta ai limiti nei quali ammettere le intercettazioni, alle cautele per la loro esecuzione, alla loro utilizzazione in giudizio. Con elenchi più o meno ampi di reati che le consentono, ai quali via via altri se ne aggiungono. Ieri il Senato ha approvato l’introduzione del falso in bilancio, reato essenzialmente documentale, rendendo possibile disporre intercettazioni con eccezione per le società non quotate.

Non è raro, inoltre, che reati per i quali sono ammesse le intercettazioni vengano configurati come ipotesi di accusa destinata a cadere, ma che consente di utilizzare questo mezzo di indagine considerato particolarmente utile.

Un mezzo di indagine, appunto, e non una prova. Lo ha chiarito ieri Carlo Nordio, che ha indicato questa via per capovolgere la prospettiva sino ad ora seguita. Ricondurre le intercettazioni alla loro funzione: dare impulso alla conoscenza dei reati, orientare le investigazioni, raccogliere elementi che orientano le indagini e consentono di raccogliere le prove. Ma non una prova esse stesse. Ricondotte a questa appropriata funzione, le intercettazioni vengono prima degli atti del processo e ne rimangono fuori. È già così per le intercettazioni e i controlli preventivi sulle comunicazioni, disposte dall’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge, utilizzate per le investigazioni, ma che non entrano nel processo e non possono essere diffuse. Che non sia questa una strada per rendere compatibili le esigenze delle indagini con la libertà e riservatezza delle comunicazioni?