Sisma dell'Aquila, le tifoserie della giustizia

di Paolo Graldi
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Lunedì 10 Novembre 2014, 23:22 - Ultimo aggiornamento: 23:49
La Giustizia non è una calzamaglia, che se non ci avvolge come una seconda pelle non ci sta bene. E neppure è un mantello. Un mantello largo che si alza e si abbassa a seconda dell’aria che tira. Qualche volta la Giustizia ci riconcilia con l’opinione di uno Stato di Diritto ondeggiante; qualche altra volta, se non corrisponde alle nostre aspettative, viene tacciata di tutto, perfino di complicità con gli aguzzini trascinati sul banco degli imputati. Insomma, mossa da arcani furori assolve i colpevoli meritevoli di pena e, talvolta, è miope e distratta verso gli innocenti. Il quadro, nell’insieme, mette paura.



Sentenze che si ribaltano passando da un grado all’altro confortano l’idea che la dialettica processuale è un bene prezioso da tenere in vita ma anche messo in discussione da verdetti che si contraddicono da un passaggio all’altro: quel che era vero ieri non lo è più oggi, e viceversa.



La sentenza sulle mancate e disastrose previsioni del terremoto dell’Aquila - 6 aprile 2009, 309 morti e un migliaio di feriti - si iscrive di diritto in questa sequenza di “ribaltoni giudiziari”: tutti e sette gli imputati assolti, incolpevoli i tecnici e gli scienziati della Commissione Grandi Rischi che cinque giorni prima del terribile scisma, il 31 marzo 2009, dissero e certificarono che si poteva stare tranquilli.

Condannati a sei anni di reclusione in primo grado dopo una sequenza di udienze davvero drammatiche, questi uomini (tranne uno, responsabile della Protezione Civile) escono assolti dalla prova d’appello e si capisce, alla lettura della sentenza, la rabbia, la delusione, la frustrazione di chi ha perso un proprio caro in quella notte di tregenda. La pubblica accusa non accetta la sconfitta e aspetta la Cassazione, gli imputati accolgono l’assoluzione come la fine di un incubo che ne ha ingiustamente segnato l’esistenza. Così è il processo da noi. Ma, guardando il panorama delle sentenze, almeno di quelle che riguardano vicende coinvolgenti per l’opinione pubblica, ci assale un senso di smarrimento, quasi di malessere perché se è inevitabile (e per fortuna che accade) il ribaltamento anche traumatico di giudizio tra una verifica processuale e l’altra è altrettanto vero che visioni opposte sui medesimi casi favoriscono, di fatto, la tifoseria tra colpevolisti e innocentisti, gli uni e gli altri accomunati nella speranza di «alfine, ottenere Giustizia».



Il caso sconvolgente di Stefano Cucchi, morto quand’era nelle mani dello Stato che avrebbe dovuto proteggerlo da qualsiasi violenza, come ha detto il presidente del senato Grasso, ripropone attraverso l’assoluzione di tutti gli imputati che avviene dopo la condanna di una parte di essi (i medici che non ne ebbero cura neppure quand’era visibilmente in fin di vita e su un letto d’ospedale) l’altalena inquietante tra innocenza e colpevolezza, dove la dimensione di questa o di quella sono come un’altalena in balia di chi la sospinge più forte.



Le sentenze si possono discutere ma si devono accettare, è la regola. E tuttavia la regola, se non nel caso in cui la ricerca della verità riesce a imboccare altre strade con porta nuova luce sui fatti, deve rassicurarci, mostrarsi aperta alle critiche ma anche credibile, autorevole. Se tutto si può rifare, rivedere, rimaneggiare, dal processo all’ex premier Berlusconi per le sue notti di Arcore con Ruby (sette anni prima e poi assolto) all’omicidio di Simonetta Cesaroni a via Poma, più di vent’anni di indagini, un fascio enorme di imputati e sospettati e poi finalmente un colpevole (ergastolo in primo grado e poi il «vada pure a casa tranquillo»), tanto per fare esempi freschi di stampa, per non dire dei processi che la Cassazione rimanda al mittente per gravi vizi con l’imperativo che è tutto da rifare, se tutto si può fare e disfare, insomma, anche il sacrosanto principio della dialettica e della importanza dei tre gradi giudizio, alla fine, vacilla. In ogni caso, il costo umano, da qualunque parte lo si guardi, è immenso.



La rabbia non trattenuta, esplosa in un «vergognatevi», verso i giudici dell’Aquila, ancor prima della classica lettura delle motivazioni, impone comunque una riflessione nel momento in cui, tra mille fatiche e tante risse, si torna a mettere mano alle riforme della Giustizia: non una calzamaglia ma neppure un largo mantello. Semplicemente un sobrio abito su misura. Chissà se mai lo vedremo indossato.