Prescrizioni lunghe sono l’opposto della giustizia

di Carlo Nordio
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Domenica 24 Maggio 2015, 23:37 - Ultimo aggiornamento: 25 Maggio, 00:13
Gli eccessi, insegnava Pascal, offuscano i sensi e la ragione. Troppo rumore assorda, troppa luce abbaglia, troppa distanza e troppa prossimità impediscono la vista, la troppa verità ci stupisce. E troppa beneficenza irrita. Se eccede le nostre possibilità di ricambiare il favore, pro gratia odium redditur: la gratitudine diventa invidia.

Anche la giustizia penale ubbidisce a questo principio. Il suo primo requisito è infatti la proporzione tra gravità del delitto e severità del castigo. Punire tutti i reati allo stesso modo non è solo ingiusto, ma irrazionale. Consapevole di questo principio, la stessa Chiesa ha ritenuto incongruo infliggere al peccatore, per una mancanza commessa nello spazio e nel tempo, una dannazione eterna: l'inferno, dicono oggi i teologi, esiste ma è vuoto.

I recenti provvedimenti che inaspriscono le pene per il falso in bilancio, la corruzione e, in prospettiva, l'omicidio stradale, manifestano certamente la sensibilità del governo nella repressione di questi perniciosi reati, ma non ubbidiscono al principio di proporzione. I conti sono facili: un imprenditore che alteri per qualche anno le scritture contabili, o un conducente irresponsabile che, bevute due birre, ammazzi un pedone, saranno puniti come un sadico che abbia violentato un bambino, o il coniuge che abbia strangolato il partner infedele. E poiché l'ergastolo, come l’inferno, è stato di fatto abolito, anche il più crudele assassino rischierà solo qualche anno in più rispetto all’automobilista ubriaco.

Questo proliferare di leggi apparentemente severe, sarà peraltro accompagnato dalla loro sostanziale inattuazione, perché comporterà processi più numerosi e complessi, con tempi più lunghi, aggravati dal prossimo e sconsiderato pensionamento coatto di 500 magistrati. L’apparato giudiziario collasserà e l’impotenza del sistema rivelerà, ancora una volta, l'incompetenza del legislatore.

Ma il disastro non si limiterà a questo. Consapevole che un tale guazzabuglio normativo è incompatibile con le sempre più esigue risorse disponibili, il governo sta progettando di limitare i danni allungando i tempi di prescrizione. La quale, come il lettore saprà, significa estinzione del reato per decorso del tempo: non solo perché lo Stato perde interesse a punire, ma soprattutto perché la durata del processo, dice la Costituzione, deve essere ragionevole.

I termini di prescrizione sono collegati all’entità delle pene previste. Aumentate queste, anche quelli sono stati ampiamente dilatati. Con il progetto allo studio si vorrebbe allungarli ancora di più. In pratica, il cittadino dovrebbe aspettare anche vent'anni per ottenere una sentenza definitiva. È una risoluzione chiesta anche dai magistrati, e questo è comprensibile, perché, come insegnava Senofane, se un triangolo potesse pensare immaginerebbe Dio come un triangolo; con ciò significando che ognuno vede la realtà attraverso la lente deformante dei propri pregiudizi. E infatti gli avvocati la vedono diametralmente opposta.

Ma quale che sia l’immagine corretta, la fotografia che se ne ricava è una sola: vent'anni di processo sono incompatibili con la sua ragionevole durata. Concludo. Se il legislatore vuole davvero fare la faccia feroce, rafforzi almeno il braccio con cui intende colpire: la minaccia inconcludente e velleitaria è peggiore dell’indulgenza benevola, e persino della rassegnata pigrizia, perché sconfina pericolosamente nel ridicolo. Adegui i mezzi ai fini che si propone, e riconduca questi ultimi nell’ambito della concreta fattibilità. Se poi risponderà che non ci sono le risorse, potremo sempre replicare che la giustizia costa cara: forse per questo se ne fa tanta economia.