Chi era Giovanni Lo Porto, una vita per aiutare i più deboli

Chi era Giovanni Lo Porto, una vita per aiutare i più deboli
4 Minuti di Lettura
Giovedì 23 Aprile 2015, 18:04 - Ultimo aggiornamento: 18:16

Giovanni Lo Porto era stato rapito oltre tre anni fa, il 19 gennaio 2012, insieme a un collega tedesco in Pakistan, dove lavorava per la ong tedesca Welt HungerHilfe (Aiuto alla fame nel mondo) impegnata nella ricostruzione dell'area messa in ginocchio dalle inondazioni del 2011.

Quattro uomini armati li prelevarono con la forza nell'edificio dove lavoravano e vivevano con altri operatori a Multan, al confine tra Pakistan e Afghanistan. Il collega Bernd Muehlenbeck è stato liberato lo scorso 10 ottobre. Dopo la liberazione il cooperante tedesco raccontò che i rapitori avevano portato altrove già da un anno il collega italiano. Chi ha lavorato con Lo Porto lo descrive come una persona molto accorta e preparata. Il suo professore alla London Metropolitan University, dove Lo Porto ha studiato, lo ha ricordato tempo fa come uno studente «appassionato, amichevole, dalla mente aperta».

«Mi disse: Sono contento di essere tornato in Asia e in Pakistan.

Amo la gente, la cultura e il cibo di questa parte del mondò», perchè «il Pakistan era il suo vero amore e sentiva di aver operato bene, stabilendo dei buoni rapporti con la popolazione». I suoi amici di Londra organizzarono una petizione già nel dicembre del 2013 in cui chiedevano a chiunque avesse qualche influenza di adoperarsi per la sua liberazione. Iniziativa replicata il 19 gennaio del 2014, per l'anniversario del suo rapimento, con l'appello lanciato dal Forum del Terzo Settore al governo italiano e ai direttori dei giornali «per rompere il muro del silenzio».

La vicenda però si è ingarbugliata fin dall'inizio, con la rivendicazione di al Qaeda del sequestro, subito smentita. Più volte il Tehrek-e-Taliban Pakistan (Ttp), principale movimento armato anti-governativo, ha negato di avere in mano Lo Porto.

Un'amica di Giovanni. Era «un amico che ha rischiato tutto per la dignità dell'uomo». Lo racconta così Margherita Romanelli, coordinatrice Asia della Ong bolognese Gvc. In Pakistan era andato «perchè c'era stato un terremoto, e poi un'alluvione e migliaia di famiglie disperse e disperate», racconta Margherita. Romanelli, che ha seguito in prima linea la campagna di sensibilizzazione per arrivare alla liberazione di Giovanni, descrive Lo Porto come «un italiano tra milioni di pakistani, un giovane preparato, competente, consapevole, che insieme ad altri poteva fare qualcosa per aiutare tutta quella gente in difficoltà». «Abbiamo seguito a lungo la vicenda di Giovanni, come amici e come colleghi, in maniera attiva attraverso petizioni e lettere alle istituzioni per oltre due anni - continua la cooperante - e abbiamo sempre creduto che sarebbe tornato a casa. Ora siamo senza voce, ma al momento giusto chiederemo di far luce sulle dinamiche della sua morte. A nome di tutto il Gvc ci stringiamo attorno al dolore della madre e dei familiari di Giovanni, e continueremo a ricordarlo per il suo sorriso, la sua umanità e il suo impegno per un mondo più giusto».

WARREN WEINSTEIN

Il cooperante americano ostaggio di al Qaida era il direttore per il Pakistan della J.E. Austin Associates. Era stato rapito nell'agosto 2011 a Lahore mentre si preparava a tornare in patria, quattro giorni prima della scadenza del suo contratto con l'Agenzia Usa per lo Sviluppo Federale. Weinstein aveva 73 anni e viveva a Rockville, alle porte di Washington. La sua famiglia non ha risposto alle telefonate dei media americani che hanno chiesto commenti. Nel dicembre 2013 al Qaida aveva diffuso un video il cui il cooperante faceva appello a Obama per la sua liberazione. Nel video Weinstein appariva emaciato e spaventato. La J.E. Austin è una società privata di consulenza che assiste economie emergenti nella crescita e ha progetti in tutto il mondo.

IL CASO CALIPARI

L'uccisione del cooperante italiano Giovanni Lo Porto nel corso di un raid americano in Pakistan riporta alla memoria la vicenda di Nicola Calipari, funzionario del Sismi ucciso da militari americani in Iraq durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, il 4 marzo 2005. Calipari era in auto con l'inviata del Manifesto, rimasta per un mese nelle mani dei suoi rapitori, ma sulla via dell'aeroporto di Baghdad è rimasto vittima dei colpi di arma da fuoco sparati da un posto di blocco americano. Secondo alcune fonti, i soldati americani avrebbero inavvertitamente esploso dei colpi d'arma da fuoco contro l'auto con a bordo la Sgrena. Altre fonti affermano invece che i colpi sarebbero stati esplosi da soldati a bordo di un altro veicolo militare Usa, a cui il convoglio con la Sgrena si sarebbe avvicinato senza tener conto del grosso fanale posteriore che intima di tenersi a distanza di sicurezza. Nella sparatoria, Calipari ha protetto con il suo corpo la Sgrena, che è rimasta ferita (a una spalla) così come altri due agenti del SISMI che erano in auto assieme alla giornalista italiana. A pagare tragicamente con la vita, nel giorno che avrebbe invece dovuto essere solo quello dei festeggiamenti per la liberazione della giornalista italiana, è stato così uno degli uomini che erano stati coinvolti nei discreti contatti con i suoi rapitori e, ancor prima, anche in quelli sfociati nel rilascio di Simona Torretta e Simona Pari, le due volontarie rapite nel settembre scorso a Baghdad e rilasciate dopo tre settimane di prigionia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA