L'ultima sfida/ L’intollerabile colpo di coda della vecchia Italia

di Mario Ajello
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Venerdì 18 Settembre 2015, 23:25 - Ultimo aggiornamento: 19 Settembre, 00:26
Giorgio Manganelli parlava di Roma come di una città che assolve ogni peccato, dà ospitalità a esuli e giramondo, non giudica, offre sempre una complicità.

E possiede una infinita e saggia tolleranza. Questo in parte è vero ma Roma non può tollerare che proprio qui, davanti agli occhi del mondo, l’Italia immobile, pansindacalizzata e giurassica scateni la sua vendetta e agiti il suo colpo di coda contro l’altra Italia. Quella che sta faticosamente cercando una cultura della modernità e ha scelto proprio il campo dei beni culturali per combattere la sua battaglia contro il Pantheon delle idee defunte dell’Italia alla Susanna Camusso.



Questa generale sfida sul sistema Italia, e sulla concezione del lavoro nella pubblica amministrazione, è custodita nell’episodio gravissimo delle porte del Colosseo e degli altri siti archeologici romani chiuse in faccia ai turisti che sono venuti per godersi la Grande Bellezza. Senza potere immaginare, alla vigilia del viaggio, quanto essa sia continuamente umiliata e offesa dall’ideologia corporativa che resiste quaggiù. E che, come è accaduto ieri, tra strafottenza verso i beni comuni e totale irresponsabilità da micro-casta, ha anche il coraggio di minimizzare l’accaduto così: si è trattato soltanto di un’assemblea sindacale di due ore... Macchè: è stata un’indebita interruzione di pubblico servizio e proprio nel luogo del patrimonio identitario da cui molto dipendono i destini della nazione, il suo ruolo nel mondo e la sua crescita anche economica.

Il ministro Franceschini, con il placet del premier, vuole allargare ai lavoratori dei musei e dei siti storico-artistici le regole previste per i servizi pubblici essenziali. E andrebbe quasi rafforzata questa legge - viene da aggiungere - in quanto proprio a Roma ha dimostrato alcune falle, come dimostrato dai sedici scioperi nei trasporti urbani nell’ultimo anno, spesso proclamati da sindacatini con poche decine di iscritti. Un Paese moderno deve avere un sindacato moderno. Ed è ampiamente arrivato il momento per la pubblica amministrazione di essere consapevole, come già lo sono i cittadini e parte della politica, della necessità di adeguare i doveri di chi lavora nello Stato e nei Comuni ai diritti di chi fruisce dei beni di tutti e non concepisce, perchè inconcepibile, il ruolo dirigenziale del sindacato nella gestione del sistema. Ecco l’urlo di un gruppo di turisti italiani a cui è stato impedito l’ingresso al Palatino: «Precettateli!». E in questo grido di rivolta, contro i rivendicazionisti del salario accessorio, i custodi dell’immobilità del posto fisso, i difensori dello stipendio come variabile indipendente dall’efficienza e dalla produttività, c’è la riprova di una pazienza ormai esaurita rispetto ai disservizi anche nel campo culturale.



Un libro appena pubblicato - «Destini e declini. L’Europa di oggi come l’impero romano?», editore Donzelli, autore Romano Benini - descrive l’esistenza dell’Italia della furba anima cortigiana e dell’Italia della grande e generosa «anima artigiana». La prima si può semplificare così: è quella della conservazione dei privilegi e del conformismo. L’Italia artigiana, cioè quella disseminata in tante attività private anche piccole ma determinanti nella crescita economica nazionale, è l’Italia laboriosa e non si capisce perchè non possa essere impiantata come mentalità e attitudine di comportamento nella macchina pubblica. Dove lo scatto d’anzianità rischia di essere in molti casi l’unica zona salva dall’immobilismo. E dove i veri reperti archeologici sono spesso coloro che le pietre antiche le dovrebbero tutelare e non incarnare. Come capita di vedere in certi musei nei quali non è facile distinguere un gruppo marmoreo vero - è quello di Lacoonte o quello degli scioperati? - da una selva di custodi assiepati gli uni sugli altri e pietrificati nell’atto di giocare la schedina.



Dunque, uno dei ritardi italiani è la mentalità impiegatizia da travet che nel campo culturale risulta ancora più grave, e assai paradossale, perchè la storia è movimento e non certo fissità. E Roma, per il suo ruolo universale e per il suo status di Capitale, è l’epicentro di questo discorso e può diventare apripista del cambiamento. «Chi ha visto l’Urbe non potrà più essere infelice», sosteneva Goethe. Ma vedere una città accasciata, per colpa di qualche sigla sindacale e alla vigilia del Giubileo, non solo ha reso infelici i malcapitati turisti in queste ore ma può servire anche come doping per chi non vuole cedere al ricatto della palude che la Camusso continua a scambiare per «democrazia».