Ebola, l'infettivologo Morrone: «E' la prova del nostro disinteresse per la povertà»

L'infettivologo Aldo Morrone, primario di Malattie Tropicali al San Gallicano di Roma
di Luca Lippera
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Lunedì 1 Settembre 2014, 18:44 - Ultimo aggiornamento: 2 Settembre, 09:01
Se ci fosse un caso di Ebola in Italia, il malato potrebbe ritenersi fortunato, perch verrebbe curato nei migliori centri clinici esistenti al mondo.
Il professor Aldo Morrone, 60 anni, infettivologo di fama mondiale, primario di Malattie Tropicali all'ospedale San Gallicano di Roma, non nega certo che in Africa esista un grave problema sanitario, «ma il nostro Paese e l'Europa non corrono assolutamente alcun rischio: noi, tutti insieme, incluse le persone che ci leggono, siamo in grado di fermare la malattia e possiamo fare moltissimo».



«I sistemi di vigilanza da noi sono talmente sofisticati - dice Morrone, ex direttore generale del San Camillo - che un'epidemia verrebbe immediatamente circoscritta. Anche gli immigrati che arrivano sulle nostre coste non costituiscono un pericolo: la malattia ha un'incubazione breve, in media tra i quattro e i dieci giorni, mentre quelle persone sono in viaggio da settimane se non da mesi. Nessun mercante di carne umana li farebbe avvicinare se solo intravedesse il segno di una malattia».



Morrone, una vita professionale dedicata ai poveri e ai bisognosi - negli Anni Ottanta guidava solitario un ambulatorio dermatologico nelle retrovie del San Gallicano in cui curava gratis immigrati e barboni - domani sera partirà per l'Africa. Il ministro per la Salute, Beatrice Lorenzin, lo ha nominato consulente speciale per la Medicina delle Migrazioni. Prima tappa in Eritrea, poi in Guinea, il Paese con la più alta percentuale di casi di Ebola, il 62 per cento del totale, dall'esplosione della nuova epidemia di febbre emorragica. «Ebola è la punta di un iceberg - dice Morrone - e al di sotto di questo iceberg c'è il disintresse del Nord del mondo per le malattie infettive che continuano a mietere vite senza sosta. Vogliamo parlare di Ebola? Benissimo. Prima, però, ricordiamo qualche numero. Finora ci sono stati circa tremila casi di febbre emorragica. Ogni anno la diarrea infantile uccide due milioni di bambini tra l'Africa e il sud est asiatico, mentre la tubercolosi, trasmissibile per via aerea, ne fa morire un milione. Le cifre parlano da sole, penso».



Cominciamo da una buona notizia?

«Ce ne sono due. La prima: la mortalità di Ebola sta scendendo: all'inizio della nuova epidemia era attorno al 90 per cento. Ora siamo vicini al 50 per cento, anche se in alcuni Paesi restiamo qualche punto più su. E' come se il virus, estendendosi geograficamente, stesse perdendo in qualche modo il potenziale distruttivo. I soggetti che ne vengono colpiti intanto si stanno fortificando. La seconda buona notizia è questa: le persone che sono portarici del virus ma non sono ancora malate non possono trasmetterlo. E' un fatto importante: in pratica solo chi mostra i sintomi è in grado di infettare altre persone. E nei nostri Paesi quei sintomi, grazie alla rete di sorveglianza che è stata allestita, verrebbero immediatamente notati».



Immaginiamo che qualcuno sia tornato da un'area a rischio e abbia nausea, vomito, febbre e diarrea. Che fare?

«La cosa più semplice. Dirlo al medico di base».



Come si trasmette Ebola?

«Con il contatto diretto con il sangue, l'urina, le feci o lo sperma di persone infette. Il virus è facilmente aggredibile: il sapone, la varechina, perfino i raggi solari sono sufficienti a eliminarlo».



Battaglia facile, apparentemente. Ma la malattia progredisce.

«Avanza in aree del mondo in cui le condizioni igieniche sono tremendamente basse. Margaret Chan, la direttrice dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, lo ripete da mesi senza sosta: questa malattia si diffonde, soprattutto, per l'estrema povertà delle aree in cui colpisce. Ci vorebbe veramente poco per fermarla. Pochissimo».



Cioé?

«Basterebbe l'utilizzo massiccio di quelli che noi medici definiamo “dispositivi individuali di protezione”: i guanti e i grembiuli usa e getta, le mascherine sulla bocca, i sovrascarpe, gli occhiali a protezione degli occhi sono un'arma potentissima. Il virus avrebbe scarsissime possibilità di passare da un organismo all'altro. L'epidemia ralenterebbe immediatamente. Ma siamo in aree del mondo dove manca tutto e dove un medico può trovarsi a dover curare a mani nude migliaia di malati di ogni tipo».



Alcuni temono che gli immigrati che arrivano sulle nostre coste possano essere un veicolo di infezione.

«Non lo sono. Proprio per il discorso fatto sui tempi di incubazione. Per di più, d'accordo con il Ministero della Salute, sono stati organizzati corsi specifici a tutti gli operatori, inclusi quelli della Sanità della Marina Militare, che entrano in contatto con gli immigrati nel corso degli sbarchi. Tutti sanno cosa va fatto, quali sono i segni a cui prestare attenzione e come comportarsi. Qualcuno, vedendo gli operatori in tv con tutte quelle mascherine e quei guanti, penserà a una cosa esagerata. Ma è così che si erige la barriera che il virus non può valicare».



Facciamo lo stesso un'ipotesi: un caso di Ebola in Italia, sfuggito in qualche modo alla rete dei controlli.

«Lo ripeto: il paziente potrebbe considerarsi in qualche modo un “fortunato”. L'ospedale Spallanzani di Roma e il Sacco a Milano sono centri di eccellenza mondiale per le malattie infettive. Un malato qui avrebbe un'assitenza che nei Paesi dove c'è il focolaio dell'epidemia non potrebbe mai ricevere. Facciamoci una domanda: quel medico americano guarito da Ebola è sopravvissuto perché è stato sottoposto a una cura sperimentale o perché era ricoverato ad Atlanta, Stati Uniti, Emory Hospital, in un centro di rianimazione con apparecchiature che ne hanno tenuto sotto controllo tutte le funzioni vitali secondo per secondo? Il fatto di essere in un ambiente totalmente sterile, per un paziente colpito da una patologia estremamente seria, può fare la differenza tra la vita e la morte».



Perché va in Africa, dottor Morrone?

«La prima tappa è in Etiopia. Si tratta di attivare con il San Gallicano un centro per la diagnosi precoce delle malattie infettive e di quelle neoplastiche. Ebola provoca spesso piccole emorragie cutane che noi definiamo petecchie. Individuarle subito significa - di nuovo - isolare immediatamente il malato, curarlo, assisterlo e quindi evitare il contagio ad altri».



E dopo l'Etiopia?

«Ho chiesto l'autorizzazione a entrare in Guinea per fare la stessa cosa. L'ospedale San Gallicano, non dobbiamo dimenticarlo, è un istituto di ricerca scientifica. Non può non spingersi dove la Scienza può aiutare e può, allo stesso tempo, apprendere».



Non ha paura?

«C'è sempre un po' di timore, ovviamente. Ma lo sguardo dei bambini e gli occhi delle donne che chiedono soccorso aiutano a superarlo. Quando si fa una carezza a una persona che ha bisogno di sostegno, la paura si dissolve, perché è come auscultarne il cuore. Trovarsi in certi posti e in certe situazioni è un privilegio».



Contro Ebola, ha detto, possiamo tutti dare una mano. Come?

«Bisogna evitare le notizie che diffondono panico senza motivo. La stampa può sostenere tutte quelle campagne che promuovono la salute e la dignità della persona nei Paesi poveri del mondo. Le malattie tropicali dimenticate, dalla malaria alla leishmaniosi, dal colera alla schistosomiasi, colpiscono ogni anno due miliardi di persone. Molto è dovuto al disinteresse delle istituzioni, anche europee, che non promuovono la ricerca scientifica e non investono abbastanza. Il Nord del mondo scopre certe malattie, Ebola è una di queste, non certo la più diffusa, solo quando teme che possano arrivare nel suo territorio. L'ex cancelliere tedesco Willy Brandt, premio Nobel per la Pace nel 1971, denunciò questo incredibile disinteresse più di quarant'anni fa. Le cose, più o meno, stanno come allora».



Ebola può essere un'occasione per cambiare ?

«Chissà. Lancio una proposta. Tutti possono adottare un ospedale come quello costruito dal San Gallicano a Sheraro al confine tra l'Etiopia e l'Eritrea. Lo volle un veterinario italiano, Mario Maiani, che spese ogni energia della vita per vederlo realizzato. Morì prima della fine dei lavori. Ma oggi quell'ospedale salva vite e assiste persone che altrimenti sarebbero abbandonate a se stesse. Chi vuole notizie può trovarle sul sito della associazione Iismas. Potremmo ripetere quell'esperienza in Africa Occidentale. Ebola può aiutarci a capire che dobbiamo e possiamo aiutare».


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