Coppia dell'acido, i dubbi sul caso del neonato sottratto alla mamma

di Lucetta Scaraffia
3 Minuti di Lettura
Lunedì 17 Agosto 2015, 00:19
È stata una decisione priva di un minimo di umanità quella di separare il piccolo appena nato dalla madre Martina, detenuta per avere aggredito con l’acido un ex-fidanzato? È stato causa di un “dolore mostruoso” assolutamente gratuito l’avere prescritto, come stabilisce la legge, che un neonato in attesa di adozione non sia allattato dalla madre? Così protestano i nonni del bambino nato in questo difficile contesto, mentre i risultati dei sondaggi sembrano confermare invece che una maggioranza di lettori è favorevole alla sentenza.

Il dibattito si è scatenato, coinvolgendo carovane di cittadini nella giornata di ieri. Il tema merita ogni attenzione con il diritto negato alla madre e la domanda: chi stiamo tutelando sottraendo un neonato alla mamma? La vicenda ha tutti gli ingredienti della storia strappalacrime: la madre che sogna solo di stare con il suo bambino, e così i nonni, che sembrano pronti ad allevare il nipote in un nido di amore e farne un cittadino modello. Come mai la loro prova come genitori sia riuscita così male, però, non sembra essere presa in considerazione seriamente da nessuno.

Così come nessuno sembra ricordare che la legge che prevede l’allontanamento immediato dalla madre del neonato in attesa di adozione - prevista in tutti i casi, quindi, non solo in quello di Martina - non è una legge punitiva, ma anzi è fatta per impedire maggior dolore nella madre e probabilmente, anche se non lo sappiamo, nel bambino.

Perché è vero che fra la madre e il bambino durante la gravidanza si crea un legame speciale, un rapporto unico fondato sui battiti del cuore, sulle vibrazioni della voce, che rendono più facile per il bambino i primi mesi di vita. Ma ci sono poi anche tutti gli altri anni, quelli successivi in cui la madre diventa un esempio, un’educatrice, una guida: se si deve scegliere, guardando al lungo periodo e non all’immediato, la madre deve anche essere scelta come persona che sia fornita delle qualità minime necessarie per assumersi la responsabilità di fare il genitore.

Leggendo i giornali vengono molti dubbi sul modo in cui i media affrontano oggi la questione maternità: se davanti al caso di Martina sembra una crudeltà staccare dalle sue braccia e dal suo seno il neonato, invocando studi pediatrici sull’importanza della gravidanza e quindi del legame con la madre nella costruzione dell’identità del nuovo essere umano, in molti altri casi i giornalisti si sono espressi in termini opposti. Davanti per esempio a coppie sterili che affittano l’utero di un’altra donna per avere un figlio, o addirittura davanti a una coppia di gay che desidera disperatamente un figlio e quindi spera nell’utero in affitto, tutti i discorsi fatti prima non valgono più. Qui vale invece l’idea che genitore è chi ha l’intenzione di esserlo, chi ama il figlio, chi lo vuole, e il legame naturale è solo una condizione materiale della quale sbarazzarsi in fretta.

È evidente che la vicenda di Martina e del suo bambino mette in luce le contraddizioni che la nostra società rivela nei confronti della maternità: può prevalere il dato naturale, o quello sociale, il desiderio astratto o la cruda vicenda umana di tutti i tempi, di un bambino nato nel momento e nel contesto sbagliato, ma non si può ogni volta cambiare il criterio di decisione, a seconda di quello che ci piace di più. E la storia di Martina viene a ricordare ai suoi coetanei che non si può fare ogni tipo di trasgressione o di violenza senza patirne le conseguenze. E ai loro genitori che può arrivare anche per loro - magari come nonni - il momento di rendere conto di una educazione sbagliata, di una responsabilità non assunta seriamente.