La Chiesa di Francesco rinunci ai privilegi

di Alessandro Campi
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Sabato 25 Luglio 2015, 23:33 - Ultimo aggiornamento: 26 Luglio, 00:01
Se monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, ha definito quella della Cassazione sui due istituti scolastici religiosi di Livorno che dovranno pagare l'imposta sugli immobili, una “sentenza pericolosa”, il tributarista Giuseppe Cipolla in una sua intervista all’“Avvenire” si è spinto oltre parlando di una “sentenza sconvolgente”. Se non altro ci siamo risparmiati, in questo caso, l’ipocrita convenzione secondo la quale “le sentenze si rispettano e non si commentano”.

La pericolosità della sentenza, secondo Galantino, oltre che dal merito – non aver tenuto conto del servizio pubblico che svolgono le scuole paritarie, aver considerato attività commerciale e con fini di lucro un servizio che, come mostrano i bilanci, viene erogato strutturalmente in perdita – sembrerebbe dipendere dalla visione ideologica che l’ha ispirata. Quasi che si sia voluto infliggere un ennesimo colpo alla Chiesa, accusata dall’ala laicista della politica e dell’opinione pubblica italiane di godere di troppi privilegi (a partire da quelli fiscali). Il segretario generale della Cei ha anche voluto polemicamente ricordare che le scuole pubbliche paritarie (scelte in Italia da un milione e 300 mila studenti ed espressione di quella libertà d’insegnamento e d’educazione sancita dalla Costituzione) non sono necessariamente scuole cattoliche o religiosamente ispirate.



Ma se questo è vero (in effetti quelle classificate come cattoliche sono circa il 60% del totale) viene anche da chiedersi – a costo d’apparire ingenui – perché la prima ad alzare il tiro contro il pronunciamento della Suprema Corte sia stata proprio la Cei. E viene anche da chiedersi – per mostrarsi ingenui sino in fondo – quanto le battaglie secolari e mondane spesso ingaggiate dai vertici della Chiesa italiana, su questioni che toccano i suoi diretti interessi economici, siano tra le cause, forse addirittura la principale, dei pregiudizi sociali sempre più diffusi nei suoi confronti. La Chiesa, d’accordo, vive nel mondo (dunque alle prese con le sue incombenze materiali) e non sta scritto da nessuna parte che debba occuparsi solo di dispute teologiche. Ma spesso è difficile convincere il prossimo che si battaglia per la difesa di un nobile principio (in questo caso la libertà d’insegnamento) e non per il mantenimento di un trattamento fiscale privilegiato. Se le esenzioni per i luoghi di culto si comprendono, quelle riservate alle attività della Chiesa che implicano movimenti di denaro e potenziali guadagni – si tratti di scuole, di cliniche o strutture ricettive – si giustificano solo con la capacità d’influenza che essa ha avuto sul mondo politico. Un principio elementare di equità impone dunque che si osservino gli obblighi contributivi che tutti i cittadini italiani sono tenuti a rispettare, senza che questo venga denunciato come un attentato al pluralismo.

Insomma, anche su questa delicatissima materia – tale visto il rilievo dell’istruzione per la vita pubblica di una nazione – il rischio dell’ideologizzazione e della strumentalizzazione non è a senso unico, dalla parte dei laicisti mossi da rancore e astio verso il mondo cattolico, ma tende a riguardare tutti gli attori in campo. Per evitarlo, cosa non facile in un Paese storicamente incline alle contrapposizioni frontali e alla partigianeria, l’unica è provare a ragionare sul tema in modo prosaico e pragmatico, come per fortuna sembrano aver fatto esponenti dei diversi schieramenti politici dopo che la sentenza della Cassazione è stata resa nota.

La verità è che il riconoscimento del ruolo pubblico delle scuole private (cattoliche o laiche che siano) è un dato ormai acquisito per legge e politicamente è stato condiviso, negli ultimi vent’anni, dai governi di sinistra (Prodi, D’Alema bis) come da quelli di destra (Berlusconi). Tali scuole, anche se l’articolo 33 della Costituzione impone che la loro attività non dovrebbe comportare “oneri per lo Stato”, per il fatto di essere aperte a tutti e di assolvere una finalità sociale oggettiva ricevono da anni sussidi diretti e indiretti, godono di stanziamenti e contributi (magari indirizzati direttamente alle famiglie degli alunni che le frequentano). E tutto ciò con una spesa per lo Stato nel campo dell’istruzione inferiore di almeno sei miliardi rispetto a quella che quest'ultimo dovrebbe sostenere se il sistema delle paritarie dovesse entrare in crisi. La sussidiarietà, almeno in questo campo, si è rivelata non solo un buon principio, ma un vantaggio economico per il settore pubblico, apprezzabile soprattutto in tempi di tagli ai bilanci. Ma quest’argomento può giustificare il mancato pagamento di imposte e tributi?

Non si tratta dunque di mettere in discussione un sistema pubblico dell’istruzione basato sulla sinergia e l’integrazione tra statale e privato che sinora ha dimostrato di funzionare abbastanza bene. I problemi semmai sono altri, quando si parla di scuole paritarie. Ci sarebbe da monitorare con più rigore la qualità degli insegnamenti impartiti in questo tipo di scuole e i livelli di apprendimento conseguiti da chi le frequenta (che molte ricerche, a partire da quelle condotte periodicamente dall’Ocse, ci dicono non essere mediamente altissimi, in ogni caso inferiori a quelli della scuola pubblico-statale), così come andrebbe tenuto maggiormente sotto controllo, e pesantemente sancito, il fenomeno del lavoro sommerso e irregolare, che nel mondo dell’istruzione privata è piuttosto diffuso.