«Il piccolo Buddha per il mio Nepal», l'appello di Bertolucci per le popolazioni terremotate

«Il piccolo Buddha per il mio Nepal», l'appello di Bertolucci per le popolazioni terremotate
di Gloria Satta
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Mercoledì 27 Maggio 2015, 23:33 - Ultimo aggiornamento: 28 Maggio, 18:03
«Mi auguro che i romani offrano un esempio di solidarietà. Il Nepal, a un mese dal primo terremoto, versa in una situazione più che drammatica aggravata dai monsoni che stanno flagellando il Paese. I media purtroppo hanno smesso di interessarsi a questa immensa tragedia ma io, nel mio piccolo, voglio dare un aiuto». Nella sua grande casa di Trastevere, mentre il sole entra dalle finestre e i due gatti ex trovatelli Uva e Maya se ne stanno accoccolati pacificamente sulla stuoia, Bernardo Bertolucci parla dell’evento di beneficenza che ha organizzato per questa sera all’Auditorium, dove verrà proiettato il film che il maestro girò in Nepal nel 1993: “Il piccolo Buddha”.

Sarà in sala anche il protagonista Keanu Reeves e il ricavato della vendita dei biglietti verrà spartito tra Emergency per il Nepal e Children Village, una ong che accoglie piccoli orfani sulle montagne dell’Annapurna. «Prima del sisma c’erano 40 bambini, oggi sono almeno il doppio», si rattrista Bertolucci.

Una parete del salone è interamente occupata da uno schermo cinematografico, dove il grande regista guarda i film e soprattutto le serie tv, la sua attuale passione. «Sono la nuova frontiera del cinema», dice. Ci rivela di seguire in questo periodo «con immenso divertimento» Better call Saul («ha per protagonista un avvocato perdente, un personaggio cecoviano»), la fiction nata da una costola del capolavoro Breaking Bad, e ci anticipa il progetto che sta prendendo corpo a tre anni da “Io e te”: «Ho deciso di dirigere una serie anch’io, ne ho parlato anche con Sorrentino che sta per girare “The Young Pope” a episodi. Ho già i contatti con i produttori, l’idea è segretissima ma posso solo dire che, a differenza di “Io e te”, non sarà un piccolo film intimista. E mi fa già sognare».


A proposito di Sorrentino, ha visto i tre film italiani che erano in gara a Cannes?

«Non ancora, ma conto di farlo in questi giorni. Invece ho seguito in tv la cerimonia finale del Festival. Che tristezza, i premiati piangevano tutti. Pareva il funerale del cinema».

Anche perché gli italiani sono rimasti a mani vuote?

«I fratelli Coen, che erano a capo della giuria, si sono inginocchiati al cinema francese. Ma non darei troppa importanza al mancato premio. Morto un festival se ne fa un altro».

Lei ha presieduto la giuria sia a Cannes sia a Venezia. Come ricorda l’esperienza del 1990 sulla Croisette?

«Premiammo “Cuore selvaggio” di Lynch che all’epoca stava con Isabella Rossellini. Insieme vennero nella mia suite al Carlton per festeggiare e se ne andarono alle quattro del mattino dimenticando la Palma d’oro. Il giorno dopo gliela restituii dicendo: è il mio regalo di nozze. Non l’avessi mai fatto. Poco dopo si sono lasciati!».

Tornando al suo Nepal, quando lo ha visitato per la prima volta?

«Nel 1992, portato da mia moglie Clare che mi fece conoscere l’Oriente. Fu il nostro primo viaggio insieme e ci aiutò a conoscerci meglio. In Nepal ebbi un vero incantamento. Mi colpì la convivenza pacifica tra induisti e buddisti: il Buddha infatti è nato proprio lì. E rimasi conquistato dalla cultura di quella popolazione arcaica, povera e dignitosa, dotata dell’innocenza pre-storica tanto cara a Pasolini che proprio in Nepal vent’anni prima di me aveva girato un episodio di “Il fiore delle mille e una notte”».

E sul piano spirituale, cosa le ha lasciato quel Paese?

«Per qualche anno sono stato molto assorbito dal buddismo tibetano. Nel 1992, incontrai il Dalai Lama in esilio a Vienna e gli annunciai il mio proposito di girare “Il piccolo Buddha”. Mi disse: “Ciascuno di noi ha un piccolo Buddha dentro di sé”. Andai sul set forte di quella benedizione. La filosofia buddista è ancora oggi molto presente nella mia vita».

È più tornato in Nepal?

«No, ma mi piacerebbe molto, come mi piacerebbe tornare nella Città proibita dove nel 1987 girai “L’ultimo imperatore” (il film vinse nove Oscar, ndr). Pechino è molto cambiata da allora, si è incredibilmente occidentalizzata: dalle immagini sembra Houston, in Texas!».

E “Il piccolo Buddha” l’ha rivisto di recente?

«Sì, nei giorni scorsi. Vi ho ritrovato il sorriso e l’armonia che accompagnarono la lavorazione. Stasera mostrerò al pubblico i luoghi delle riprese: ieri erano integri, oggi sono stati devastati dal terremoto. Vedere quelle immagini appaiate fa un’enorme impressione».

“Il piccolo Buddha” è grande cinema, si può dire lo stesso delle serie tv?

«Il cinema ha subito tante metamorfosi. Dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore, dalla pellicola al digitale. Non sono più i tempi in cui a Parma aspettavamo spasmodicamente l’uscita dei nuovi film. Il cinema deve accettare di trasformarsi. È l’unico modo che ha per sopravvivere».

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