«Roma: a me gli occhi, please». Gigi Proietti ripropone i suoi cavalli di battaglia

«Roma: a me gli occhi, please». Gigi Proietti ripropone i suoi cavalli di battaglia
di Rita Sala
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Venerdì 19 Giugno 2015, 23:15 - Ultimo aggiornamento: 4 Luglio, 09:15
Per il suo gioco di contaminazioni che nel tempo è diventato una sigla, un classico, un must del quale il pubblico, a tutte le latitudini, non può più fare a meno, Gigi Proietti scelse - era il 1976 - la formula degli ipnotizzatori da circo e il perfavore inglese: «A me gli occhi, please». Centro pieno. Il titolo ha designato, da allora ad oggi, la mostruosa bravura di un attore che si è in un certo senso immolato ad essa, preferendo le adunate di spettatori felici a Pirandello, Beckett, Pinter e quant'altro. C’è di più. Obbedendo all'imperativo «recital», Proietti ha deciso di stupirci fedelmente, stagione dopo stagione, per dimostrare che, sulla base di un immenso talento, la bravura non ha limiti.



Cavalli di battaglia, in scena martedì 7 luglio nella cavea dell’Auditorium Parco della Musica - 3600 posti già tutti occupati in onore del mezzo secolo di lavoro dell’artista romano - è l’ennesimo nipote di A me gli occhi. E si diverte a rendere quintessenza gli elementi che a suo tempo fecero rivoluzionario l’evento, rigenerandoli per il puro piacere di ri-viverli, ri-offrirli e superarli. Il contenitore è un happening che mette insieme passato con presente in un unicum di numeri, bravure, sketches, digressioni, fantasie e sublimi barbarie. Gigi spara fuochi d’artificio, shakespeariani, goldoniani, accademici, borgatari, burini, spaziali, surreali. Irresistibile la parodia di Margherita Gauthier, con la primattrice che impreca in lingua napoletana e Gigi impegnato a fare il sordo. Esilarante Pietro Ammicca. Pieni di pathos, come sempre, i momenti in cui l’Attore getta in platea parole scelte, quelle, ad esempio, di Roberto Lerici nel famoso monologo sulle mille identità dell’Amore.



Che effetto le fa, Proietti, l’ennesimo “tutto esaurito” ad ogni replica? Nella cavea non c’è più posto, nemmeno per una formica. «La mia città dimostra di amarmi moltissimo, di seguirmi sempre, pure se cambio casa, magari anche durante il trasloco. Questa continuità mi dà forza. Molti anni fa un amico, un nobile amico, Ugo Gregoretti, mi regalò un consiglio, non l'ho mai dimenticato: cerca di legarti a un luogo, a una gente, cerca di essere Roma. Ho seguito l’indicazione mettendoci dentro anni di esperienze diverse che si sono sommate alla passione, alla tenacia, al talento (beh, sì, ammettiamolo) e a un’inguaribile manìa di dominare la tecnica interpretativa».



Ma la storia come è cominciata? «I botti grossi della mia carriera sono stati fondamentalmente due,
Alleluja brava gente di Garinei e Giovannini, dove arrivai avendo fatto il teatro di sperimentazione, ad esempio Il Dio Kurt» di Moravia con la regia di Tonino Calenda, e tanti altri spettacoli, diciamo impegnati; e l’esperienza della Tenda, con «A me gli occhi, please, dove già allora misi tutto insieme e girai il mestolo. Là scoprìi che arrivavo alla gente».




Con cosa in particolare? «Se lo sapessi con precisione lo direi, anzi lo insegnerei a tutti i giovani attori. La tecnica, come dicevo prima, c’entra, senz’altro. Ma non basta. Forse utilizzai gli occhi, come dice il titolo. Chiesi attenzione. Non per me, Gigi Proietti. Chiesi attenzione per l’attore».



La stanno pregando di aggiungere recite a quelle programmate, perchè la gente vuol venire alla Cavea a tutti i costi, vuol rivedere e riascoltare Tòto, e tutto il resto. «Me ne stupisco e me ne rallegro. Certe volte si crea, fra un artista e una terra, un rapporto di visceri e di organizzazione, di sentimento e concretezza, che va oltre il normale. E il fortunato trae, da questa situazione, una carica immensa».



C’è l’orchestra dal vivo con il maestro Mario Vicari e ci sono i compagni e sodàli di sempre, da Marco Simeoli e Claudio Pallottini, a Susanna e Carlotta Proietti, le sue due figlie. «Si spazia dalla canzone alla ballata, dal siparietto alla poesia. E poi Tòto, il romano di borgata che entra ed esce dalla saùna in cerca di un amico “liqueso”: non posso non farlo, avvolto in un telo candido, malfermo e dondolante perché spossato dalla lunga permanenza nel bagno di vapore ad alta temperatura. Gli spettatori ormai ci dialogano in diretta, ne anticipano le battute, che conoscono a memoria...»



Amore inalterato per Roma e per i romani. Come lo mantiene vivo, guardando all’oggi? «Non è che non mi accorga delle cose. Vogliamo parlare dello sfascio della città cominciato nel primo dopoguerra? Roma è andata perdendo identità. Ha detto addio a qualsiasi disegno urbanistico. Ha polverizzato la propria valenza fluviale (a Ripa Grande, almeno fino ai tempi di Pascarella, attraccavano le imbarcazioni cariche di merci). La costruzione degli argini avrà evitato le inondazioni: ma a che prezzo! Forse, come è accaduto in altre grandi città europee, le soluzioni potevano essere diverse, si poteva risparmiare il Tevere. Ogni tanto, ad esempio di fronte alla potenza dei resti antichi, mi domando quale trauma avrei subìto, tornandoci adesso, se avessi lasciato questa città da ragazzo. Sarebbe stata una botta tremenda: con dentro il ricordo di una Roma dicono pigra, io sostengo tollerante, ancora piena dei segni del suo vecchio prestigio, avrei trovato questo posto nervoso, isterico, pieno di problemi. Ma tant’è. Possiamo sempre rimboccarci le maniche».
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