E’ uno sguardo da cronista quello della psichiatra che si dilunga sull’irrequietezza di Clara («Nel linguaggio marinaresco una barca è definita “gelosa” quando si agita molto e Clara ne è la prova»), sulla ferita narcisistica di Xavier («Teso a proclamare di dover rendere felice una donna, un lavoro di Sisifo»), sull’ansia di Simon («Non appena la sua donna gli comunicava il desiderio di allontanarsi, Simon aveva già escogitato un piano per controllare e per fargliela pagare. Ma quando capiva che tutta quell’agitazione era immotivata ne rimaneva avvilito»), sulla rabbia di Fabien («Durante le sedute si tormentava pensando al momento in cui avrebbe chiamato la ex per elemosinare un appuntamento»). Ritratti a tutto tondo che non scadono mai nel macchiettismo. Anzi, diventano capitoli fondanti per arrivare a capire quando quel confine viene superato. Dentro e fuori di noi.
I SENTIMENTI «Di colpo - spiega Marcianne Blévis - ci ritroviamo annientati, preda di tormenti, fantasmi, dubbi, pervasi da una paura irrazionale dell’abbandono e un intollerabile sentimento di solitudine. Il controllo di ogni comportamento dell’altro, l’aggressività verso i possibili rivali si accompagnano alla scarsa autostima, e tutto precipita in una vertigine distruttiva, che investe luoghi, intimità, ricordi e futuro». Partendo dai vari casi l’autrice riannoda i fili delle vite dei suoi pazienti, rintraccia i momenti topici dell’infanzia, mette in correlazione il delirio del possesso da adulto con quello che è accaduto in epoche passate.
Per rintracciare un dolore che, per esempio, da bambini si chiamava tormento dell’abbandono e da adulti si nasconde dietro un sentimento d’amore.
Una passione senza regole e senza freni. «Ricostruendo il linguaggio di questa “infanzia amorosa” - aggiunge la psichiatra - si può avere la meglio su un sentimento velenoso che può colpire indifferentemente uomini e donne». Non un girone dei gelosi ma l’analisi delle domande, delle richieste, delle frasi ripetute, dei comportamenti ossessivi e del frastuono mentale che si vive in quella condizione. Da qui la scelta, originale, della psicoanalista francese di definire gli “otelliani” come persone «senza fissa dimora, scisse da ferite diverse che hanno impedito loro l’accesso verso se stessi».
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