Lo studioso Emilio Gentile: 25 aprile, «Una festa a rischio oblio»

Lo studioso Emilio Gentile: 25 aprile, «Una festa a rischio oblio»
di Mario Avagliano
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Martedì 21 Aprile 2015, 23:53 - Ultimo aggiornamento: 28 Aprile, 11:25
«La Resistenza, come il Risorgimento, rappresenta un patrimonio nazionale di valori che andrebbe condiviso da tutti, senza contrapposizioni politiche o ideologiche». È la convinzione dello storico Emilio Gentile, il massimo studioso del Fascismo, che sabato 25 aprile, alle 16.30, presso l’Auditorium Parco della Musica a Roma, parlerà del mito conteso della Resistenza e della Liberazione.



Professore, oggi qual è il valore del 25 aprile?

«Esattamente quello di 70 anni fa: è la data simbolo della partecipazione italiana alla guerra degli Alleati per la liberazione del Paese dal nazifascismo. E poiché la liberazione è avvenuta propugnando gli ideali comuni della libertà, della democrazia e della giustizia sociale, se non abbiamo rinunciato a nessuno di questi valori, essi sono ancora attuali».



Quale rappresentazione della Resistenza è stata data nel dopoguerra?

«È evidente che, da parte dei protagonisti, c’è stata la tendenza a ricostruire la Resistenza come un mito, tutta in chiave positiva. In questi decenni, però, la storiografia ha sfrondato il mito di tutte le esagerazioni, mettendo in luce anche gli aspetti negativi, ma confermando i valori alla base di quell’evento».



Per lungo tempo il 25 aprile è stata la festa dei soli partigiani, lasciando fuori dai cortei (e dalla memoria) le altre forme di Resistenza. Come mai?

«In quegli anni ci furono altre forme di opposizione al nazismo e al fascismo, come la resistenza degli internati militari, che rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale. Ma si tratta di un fenomeno diverso dai partigiani. Comunque la storiografia oggi ha approfondito anche questi aspetti».



Ha contato anche il clima della guerra fredda?

«La guerra fredda è stata decisiva nel rompere il fronte comune della Resistenza, facendo emergere l’antagonismo ideologico tra i vari partiti del Cln, presente fin dal 1946, e favorendo una diversa rappresentazione pubblica degli eventi. Ad esempio, nell’immediato dopoguerra ci fu il tentativo del partito comunista di agitare il vessillo della Resistenza come una rivoluzione incompiuta o tradita dai governi democristiani. E negli anni Cinquanta e Settanta il mito della Resistenza venne di volta in volta rianimato a seconda dell’andamento del conflitto politico e per contrastare il risorgente neofascismo. Di recente si è arrivati quasi a dissolvere questo mito nell’oblio, specialmente per le nuove generazioni».



C’è del vero nella tesi che i comunisti parteciparono alla Resistenza solo in funzione della rivoluzione proletaria?

«Ogni partito contribuì alla Resistenza con il proposito di andare al di là dell’obiettivo immediato e necessario di liberare l’Italia dal nazifascismo. Ma nei fatti i comunisti non fecero la rivoluzione, contribuendo invece, assieme alle altre forze politiche, alla fondazione della Repubblica e alla Costituzione».



La vigilia di questo 25 aprile è stata caratterizzata da una polemica assai aspra sulla partecipazione della Brigata Ebraica e dei rappresentanti dei palestinesi al corteo romano.

«È molto triste. Oltre che da storico, lo dico da cittadino. Il 25 aprile dovrebbe costituire il momento in cui si mettono da parte le differenze ideologiche e politiche e si pone l’accento sui valori comuni della Resistenza. E poi non dimentichiamoci che questa festa ricorda un evento avvenuto in Italia nel 1945: la liberazione. La bandiera che sventolava il 25 aprile del 1945 era quella italiana, ed è l’unica che dovrebbe sventolare nella ricorrenza della Liberazione».



Il contributo alla guerra di liberazione da parte della Resistenza e del ricostituito esercito italiano come cobelligerante contò alla conferenza di pace a Parigi dell’agosto 1946?

«Sì certamente, fu molto importante perché evitò all’Italia di fare la fine della Germania e di essere divisa in zone di occupazione fra americani, inglesi,francesi e jugoslavi».



Il presidente della Repubblica ha dichiarato alla Camera che non è possibile equiparare i resistenti e i combattenti di Salò.

«Mi pare una dichiarazione di buon senso storico. Erano due gruppi di italiani animati da valori contrapposti che si combatterono come nemici. Da una parte si combatteva per la democrazia e per la libertà, dall’altra per conservare, restaurare o addirittura espandere il regime totalitario e razzista. È vero, ci fu chi aderì a Salò in buona fede e per patriottismo, ma la buona fede non cambia la sostanza delle cose. Anche le SS erano in buona fede e patriottiche».



La Resistenza è stata tradita dalle classi dirigenti del dopoguerra?

«Si possono avere giudizi diversi sul grado di realizzazione degli ideali della Resistenza. Ma se oggi possiamo parlare liberamente anche di questo, è il prodotto della libertà che la Resistenza ha contribuito a riportare in Italia».



In Italia ci fu “una guerra civile”, come sostiene Claudio Pavone nel suo saggio del 1991?

«All’epoca ne erano già convinti i combattenti di entrambe le parti. La storiografia non ha fatto altro che prendere atto di una realtà che per molto tempo è stata ignorata perché si temeva che, parlando di guerra civile, si mettessero sullo stesso piano i resistenti e i combattenti di Salò».



Sui confini orientali ci furono scontri violenti tra partigiani comunisti e cattolici ed episodi come l’eccidio di Porzus.

«Sono episodi tragici legati a situazioni particolari, su cui si è fatta ampiamente luce e che comunque non mettono in discussione il valore generale della Resistenza».



Neppure le vendette del dopoguerra?

«Beh, qui siamo fuori dal perimetro della Resistenza. È come quando si vuol negare il valore storico e ideale del Risorgimento, parlando della repressione piemontese del brigantaggio».
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