I video di Bossetti spiato in carcere, un’inutile gogna

I video di Bossetti spiato in carcere, un’inutile gogna
di Paolo Graldi
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Venerdì 8 Maggio 2015, 23:00 - Ultimo aggiornamento: 3 Luglio, 09:30
La materia scotta, è incandescente, e il suo utilizzo pubblico, cioè la sua pubblicazione, via carta stampata o via video, si infila dritta dritta nell’infinita polemica sul tema del confine da tracciare intorno alle intercettazioni. Se ne parla da anni. Appunto, se ne parla, se ne discute, si litiga, si promettono o si minacciano leggi, s’invocano per un verso o si temono per l’altro verso bavagli alla stampa e alla libertà di informazione.



Si discetta sulla reale utilità nelle indagini di polizia giudiziaria e sui limiti da osservare, includendo alcune fattispecie di reato ed escludendone altre. Il malloppo di polemiche è tale che nessun governo, per quanto decisionista si proponga di essere, ha finora mai fissato un punto chiaro e fermo. La materia che scotta, sulla quale si sono riversati fiumi di opinioni per lo più contrapposte, darà ancora molte soddisfazioni ai cultori del ramo: per ora c’è solo il buio alla fine di questo tunnel di polemiche. La materia che scotta, tuttavia, qualche volta sembra scavalcare qualsiasi recinto e infilarsi, sbaraccando ogni barriera, in quel che resta della privacy in questo paese.



Gira in tv lo scoop, perché di autentico scoop giornalistico si tratta, è di Sky Tg24, e riguarda uno spezzone di conversazione in carcere tra Massimo Bossetti, accusato dell’assassinio di Yara Gambirasio (26 novembre 2010) e la moglie Marita Comi. Le microspie con telecamera piazzate nella stanzetta dei colloqui del carcere assorbono ogni dettaglio, anche il minimo bisbiglio, del colloquio.



Si coglie, ascoltandolo, l’ansia della moglie del muratore di avere conferme delle tante voci e delle non poche bugie delle quali Bossetti ha disseminato il suo percorso di presunto assassino, rispondendo agli assalti degli investigatori e dei pubblici ministeri. «Se mi devi dire qualcosa dimmelo adesso…», implora trattenendo un’ansia mozzafiato la donna. S’avverte nella sua insistenza il dolore acuto che deve provare nel sentire il marito che le chiede a mezza bocca, quasi farfugliando, una sorta di complicità su alcuni dettagli, smemoratezze calcolate e però anche di valore per i cercatori di prove.



Chiede, insiste, vuole sapere, capire, fugare dubbi e fantasmi, quegli orrori nei pensieri che le stracciano il sonno della notte. Lo scoop del Tg in onda 24 ore su 24 ripropone, pur nella sua potenza (prepotenza?) giornalistica la domanda: perché quelle immagini che accolgono una intimità drammatica vengono lasciate uscire dai faldoni del processo (60 mila pagine, in corte d’Assise dal 3 luglio prossimo) per mostrarsi a tutti? Assale, scrutandole per cercarne le pieghe più riposte o cangianti, un senso di inquietudine, come di qualcosa che è stato violato per il nobile scopo di raccogliere elementi utili alle investigazioni e però poi fatto deflagrare nell’immenso palcoscenico della opinione pubblica.



Da un bel po’ ci sono programmi che si nutrono e non di rado con robuste approssimazioni di istruttorie su omicidi (vanno molto quelli in cui le vittime sono donne, moglie, madri) nei quali il carattere indiziario è forte e scatena le divisioni tra il pubblico: è innocente; no, è colpevole. Su alcuni fatti di sangue hanno prosperato interi palinsesti nei quali la riservatezza delle indagini (e per molte c’è o dovrebbe esserci la coperta stagna del segreto) è stata piegata al copione delle telenovele noir.



Tutto si dispiega in tempo reale come se si fosse di fronte a istruttorie che già contendono sentenze passate in giudicato. Si ha l’impressione che la tensione verso la verità che si dice di ricercare o di disvelare nasconda in realtà lo stravolgimento delle regole a protezione di chi è soggetto ad indagini. Di qui l’accusa, non sempre infondata alla stampa e alla tv, di “macchina del fango” che non riesce ad accettare i tempi (sì, certo, quasi sempre troppo lunghi) degli accertamenti processuali spostando la stessa sede del giudizio dalle aule agli studi tv o nelle redazioni dei giornali.



Sono questi tempi duri, crudi, impietosi: troppa violenza, troppo sangue ovunque per invocare ricami o ceselli. Di questi tempi prevale l’ansia della mannaia. E il bilancio finale, non è quasi mai con dell’utile da esibire. Fa pena Marita Comi che tempesta il marito di domande, lui accusato di aver ucciso e violentato una tredicenne. Quei frammenti da strumento di indagine, invasivo per definizione, diventano un’altra cosa, si trasformano in esibizione del dolore.



Da investigazione diventano invasione in una intimità tradita per altri fini. Lo stesso vale per tutto ciò che il male di una società malata di immagini choc ci mostra ogni giorno: non avremmo mai più dovuto vedere uomini e donne in manette, di qualsiasi colpa accusati, mentre dai laboratori dei comandi escono trionfali riprese di boss e gregari assassini tirati fuori dai loro covi. Certo, vedersi infilati nelle macchine di servizio produce un attimo di sollievo: presi, finalmente.



Ecco, in quell’istante, sospirando, ci siamo giocati un altro frammento di rispetto umano.
Che poi è un valore che, alla fine dei giochi, non rispetta e non guarda in faccia a nessuno.
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