Bernard-Henri Levy a Positano per il premio Giornalismo civile: «Così la cultura
salverà l’Europa»

Bernard-Henri Levy a Positano per il premio Giornalismo civile: «Così la cultura salverà l’Europa»
di Rita Sala
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Lunedì 22 Giugno 2015, 23:58 - Ultimo aggiornamento: 24 Giugno, 13:27
È nato in Algeria nel 1948 da una famiglia ebraica sefardita. Ma all’età di pochi mesi era già a Parigi, la Capitale in cui è cresciuto e che ha assorbito profondamente. BHL (Bernard-Henri Levy), filosofo, ha respirato le idee e la parola di Jacques Derrida e Louis Althusser, ma non si è mai limitato alla teoria, alla speculazione del pensiero.

BHL sta per arrivare in Italia. Riceverà dopodomani a Positano il premio internazionale di Giornalismo Civile, quindi sarà a Spoleto, al Festival dei Due Mondi, dove sabato, al Caio Melisso - Spazio Carla Fendi, interpreterà il suo testo Hotel Europe, tratto dall’omonimo libro pubblicato da Marsilio.

Nel suo “Hotel Europe” è ancora possibile ordinare un piatto che contenga la salvezza del Vecchio Continente?

«Sì, se si seguono le raccomandazioni che vengono fatte nell’ultima parte. Non parlo del mio “governo ideale”, un po’ difficile da mettere in atto perché presuppone di chiamare a raccolta, tra gli altri, Vaclav Havel, Alberto Moravia, Jan Kanski, Goethe, Diderot, Marcel Proust, Pasolini, Leopardi e De Gasperi. Parlo di certe misure semplici, rifare i biglietti di banca, ad esempio, mettendo dei volti al posto dei paesaggi idioti e dei ponti che non portano da nessuna parte che ci sono attualmente. Riscrivere la Costituzione europea dotandola di un esecutivo forte che si incarnerà anch’esso in un vero viso di donna o di uomo, non più in un ectoplasma o in una sigla. Ancora, creare un sistema europeo d’indennizzazione per i disoccupati di lungo periodo che gli Stati non hanno la possibilità di soccorrere e che, ricevendo un assegno firmato Europa, può darsi comincino a trovarla, l’Europa, un po’ più utile e desiderabile».

Quella che lei chiama “la paura dei poveri” è molto aumentata con l’afflusso delle masse migranti dal Medio Oriente e dall’Africa. Come giudica il comportamento dell’Europa sull’argomento? Ha aggiunto qualcosa in merito nel suo monologo?

«Le pièces, lei lo sa, si modificano e si arricchiscono con più vengono rappresentate. Dunque a Spoleto, dove sono felice di andare, troverete delle aggiunte e dei rimaneggiamenti. Ci saranno la Lega Nord e gli scivoloni recenti delle autorità italiane del calcio. Ci sarà Renzi, per il quale nutro la più grande stima. E ci sarà il palcoscenico Lampedusa, che ritengo uno di quelli su cui si gioca l’avvenire dell’Europa. Come si comporta l’Italia a Lampedusa? Piuttosto bene. E l’Europa? Piuttosto male».

E la Francia?

«Si comporta male, in questo caso penso si comporti male. E ne sono desolato. Ma tutto vien detto nella pièce, vedrete».

Nel monologo lei afferma che se l’Europa non riuscirà a gestire Lampedusa, morirà. È d’accordo su tutto con Papa Francesco?

«Senz’altro no. Ma intanto devo dire che è un gran Papa. E poi io sono attentissimo alla buona qualità delle relazioni tra ebrei e cattolici. Meno giusto il “dialogo” giudeo-cristiano, quello spazio di zuppa ecumenica che i ciarlatani ci vendono nel segno del giudeocristianesimo. Meglio un’alleanza, una vera alleanza senza compormessi né sentimentalismi che sarà, secondo me, una delle buone risposte possibili all’antisemitismo».

In quale direzione ci consiglia di guardare? Più verso Dante Alighieri o più verso Pier Paolo Pasolini?

«È la stessa cosa. Nell’allucinazione finale del mio personaggio, all’ultimo atto, Pasolini è letteralmente una reincarnazione di Dante».

A 750 dalla nascita dell’Alighieri, in Italia, tutto sommato, se ne parla poco. Secondo lei è l’ennesimo portato della crisi?

«No. È una conseguenza del ripiegamento nazionalista al quale l’Italia, non più che il resto d’Europa, non riesce a sfuggire. Lo dice lo stesso Dante, nel De monarchia, ad esempio. Che gli imperi sono venuti prima delle Nazioni, in senso cronologico e, oserei dire, anche ontologico. Di conseguenza, le Nazioni sono una parentesi che l’avvento dell’Europa può ben contenere. Esattamente il contrario di quello che ci vanno ripetendo i nazionalisti della Lega Nord da voi, del Fronte Nazionale da noi».

Potrà la politica ridiventare un giorno la più nobile delle arti?

«Quel cammino non lo imbocca! Bisognerebbe rileggere non più Dante, bensì Machiavelli. Ma chi legge ancora Machiavelli? Chi? La gente preferisce leggere il giornale. Oppure c’è Carl Schmitt. Perché l’alternativa è questa: se la politica è la più nobile delle arti, siamo in Machiavelli. Se è un gioco di stratagemmi, d’intrighi e di interessi siamo nel nazismo di Carl Schmitt».

Nella pièce lei afferma che la Cultura salverà l’Europa e che Matteo Renzi la pensa nello stesso modo. Da dove l’ha capito?

«Da un’intervista che ha rilasciato quando feci Hotel Europe alla Fenice di Venezia: disse che l’Europa non si sarebbe rimessa in piedi se non attraverso un ritorno a Dante, Goethe, Husserl e Levinas. Non credevo ai miei occhi e alle mie orecchie. Da allora ho avuto il desiderio di reincontrarlo. Ma nulla è ancora successo. Può darsi venga a Spoleto? Non so se è stato invitato, ma lo invito io qui, tramite “Il Messaggero”. Scherzi a parte, sarei veramente onorato di trovarlo là, ad assistere a una pièce nella quale - ne sono sicuro - si ritroverà».

Lei ha detto che vorrebbe essere definito “un europeo di origine francese”. Crede che diventerà comune questa volontà di dare preminenza alle radici europee rispetto a quelle nazionali?

«Sì, certo. Hotel Europe è un grido di collera e di disperazione che va in questa direzione. Tutti parlano della Grecia. Io stesso, nella pièce, metto in scena l’uscita della Grecia dalla zona euro e la sua entrata nella zona rublo di Putin, al quale Tsipras ha appena fatto visita. Ma siamo seri. La Grecia non è un problema, è il sintomo. E il vero dramma è l’affondamento del sogno europeo, l’illanguidimento dell’identità ad esso legata».

Nel giro di un anno, il suo monologo manterrà intatte le sue valenze? O cambierà qualcosa?

«Intatte, ahimé».

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