L’attimo prima di morire, Gino Ventura,
scampato alla strage racconta

L’attimo prima di morire, Gino Ventura, scampato alla strage racconta
di Pier Vittorio Buffa
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Mercoledì 24 Aprile 2013, 09:12 - Ultimo aggiornamento: 25 Aprile, 11:20
ROMA - Gino Ventura il 7 giugno 1944 aveva vent’anni. Era alle Pratarelle, Vicovaro, Roma. Venticinque morti tra cui due bambini di tre anni e uno di quattro.
Lo sento avvicinarsi perché i suoi scarponi si muovono nell’erba alta di giugno con ritmo cadenzato, da soldato senza fretta che sa cosa deve fare. Lo vedo vicino a me perché sono sdraiato, prono, ma la faccia è girata, la guancia destra nell’erba, gli occhi a cercare di guardare più alto che possono. Non vedo il suo volto, arrivo appena a immaginare il cinturone. Non mi muovo perché un istante prima avevo deciso di fare il morto. Deciso così, come un ragazzo di vent’anni può decidere cosa lo avvicina alla vita e cosa lo allontana. Nell’impulso di un attimo, nell’intuizione che quella è la cosa migliore che posso fare. Il tedesco non crede che io sia davvero morto. Altrimenti non impugnerebbe la pistola come si fa quando si vuole uccidere. So che ha fatto così perché da quando si è fermato sopra di me a quando ho visto la fiammata è passato del tempo, tanto, un pugno di secondi che non conto ma che sembrano non finire mai.

IL COLPO DI GRAZIA

Sono le otto e mezza di una bella serata di giugno, è quasi buio. La fiammata è violenta e breve. C’è solo lei a dirmi che il colpo di grazia è partito verso la mia testa. Non ricordo nessun rumore di grilletto. Solo la fiammata. Non so cosa pensa un uomo negli attimi nei quali sa che sta per morire. Non lo so perché in quegli attimi non si pensa niente. Non lo so perché non sono morto. Il sangue scende sugli occhi, il dolore è come di una bruciatura intensa. Forse ho il sussulto di un uomo colpito a morte. O forse riesco a fare come avevo deciso, non muovermi per niente, come fossi già morto. Chiudo gli occhi, o è il sangue a chiuderli. Comunque non vedo il tedesco andarsene, né sento i suoi passi nell’erba. Ho dolore alla gamba, alla spalla, adesso anche alla testa. Ma resto immobile. Devo convincerli che mi hanno ucciso come volevano.

LA BANDA PARTIGIANA

Io ero arrivato alle Pratarelle verso sera. È una bella zona a monte del paese. La gente di Vicovaro vi aveva costruito delle capanne per stare più al sicuro, lontano dalla guerra. Noi che stavamo in montagna scendevamo giù per dormire e per rifornirci. Io ero nella banda partigiana Ziantoni e quella sera ero sceso per incontrare la mia fidanzata, Celeste Ziantoni. Ci sentivamo più sicuri, Roma era già stata liberata, i tedeschi si ritiravano verso nord e noi aspettavamo da un momento all’altro l’arrivo degli alleati. Nella capanna di Celeste ci sono almeno una ventina di persone. Sono arrivato da poco quando sentiamo le urla dei tedeschi. Torno dentro di corsa, una ragazza, Romana Febi, mi indica il retro della capanna. «Ti faccio un buco con la roncola, scappa di qua». Appena il varco è sufficiente salto fuori. Scavalco un cancello e via di corsa verso la grotta, dov’è più difficile che i tedeschi ci trovino.

Ci sono già donne e bambini e altri tre uomini, un mio zio con suo figlio e un carabiniere. Ci infiliamo nella grotta mentre le donne, insieme ai bambini, si mettono davanti all’ingresso per cercare di nasconderlo alla vista. I tedeschi arrivano in pochi minuti. Forse hanno seguito delle tracce, oppure i fascisti del paese gli hanno detto della grotta. Non si curano di chi cerca di proteggerci, entrano e quando ci vedono ci puntano addosso i fucili.

MANI IN ALTO

Usciamo dalla grotta con le mani in alto e vediamo gli altri, altri sei tedeschi con le armi pronte a sparare. Ci fanno un cenno brusco che vuol dire «camminate» e uno di loro ci fa capire, con parole che proprio non ricordo, che andiamo a cercare un posto dove fucilarci. Ci siamo allontanati di poco dalla grotta quando, a lato del viottolo, c’è una donna uccisa. La conosco bene, è Maria Ventura. Accanto a lei, in piedi, gli occhi sbarrati, suo suocero, Giuseppe Carboni, che ha più di ottant’anni. Non lo lasciano stare, lo spingono verso di noi e anche lui viene a cercare il posto adatto alla fucilazione. Ho fatto il soldato e anche se non ho mai combattuto so che non bisogna mai rinunciare a salvarsi, anche quando sembra che non ci sia più nessuna speranza.

Mi guardo intorno, studio come si muovono i soldati tedeschi, cerco possibili vie di fuga. Niente, siamo praticamente circondati dai dodici soldati. «Voi partigiani, kaput», dice quello che sembra il comandante, giovanissimo. Si allontanano, il momento sta per arrivare. Alla mia destra c’è un pendio ripido. Ecco, alzano i mitra. Mi butto sulla destra, nel burrone, proprio mentre parte la raffica. Rotolo giù ma mi hanno colpito. Alla spalla e alla gamba sinistra mi troveranno i fori di quattordici proiettili. Cerco di muovere la gamba ferita, non risponde, saprò poi che si è spezzata in quattro punti. Striscio facendo forza sul braccio destro. Quando sento il tedesco venire verso di me, mi blocco, mi fingo morto. Il colpo di grazia non mi uccide. Il proiettile arriva alla mia testa, nella parte sinistra della fronte e scivola via. In quelle ore il mio cervello gira come su sé stesso. Non pensi a nulla quando sei solo, ferito e immobile in un posto dove sai che non passa mai nessuno. Provi una solitudine totale, come non ho mai più provato nella vita.

Della notte del 7 giugno ricordo solo quattro colpi di cannone passati sopra le Pratarelle. E la convinzione, più forte ora dopo ora, che sarei morto lì. Poi la voce di una donna. «Armandooo… Nandooooo». Cerca mio zio Armando Duvalli e suo figlio Nando, catturati insieme a me. Cerco di tirar fuori un po’ di voce. Esce un sibilo. Respiro più profondamente che posso. Il sibilo diventa un po’ più alto e al terzo tentativo si trasforma in un grido di aiuto.

LA SALVEZZA

Rosalia Riccetelli, moglie di Duvalli, è vicina a me. Dice che sopra ci sono Armando e Nando, morti, e anche Luigi Cubello e Carboni. Con una piccola carezza mi rassicura, corre via. Tornano in cinque o sei con una scala a pioli, mi ci mettono sopra, mi portano giù al paese. Non importano i dolori degli scossoni, la testa che gira, il cielo che si confonde con gli alberi ai bordi del sentiero. Adesso sono salvo davvero. Quello che è successo alle Pratarelle dopo che sono scappato dalla capanna me lo hanno raccontato. Della capanna dalla quale sono fuggito attraverso il buco fatto da Romana non c’è più nessuno, questo mi hanno detto. Sono entrati e hanno mitragliato uccidendoli tutti. Nessun uomo, solo donne e bambini, anche Celeste, la mia fidanzata di diciassette anni. Sul monumento, in paese, ci sono tutti i loro nomi, anche quelli dei bambini. Io per loro, non per me, per loro, li ammazzerei i tedeschi. Quello non è stato un atto di guerra. Nemmeno di guerra ai partigiani, come volevano far credere. Soltanto crudeltà e vendetta.

Marcellina, Roma, 10 gennaio 2013
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