Il lettino di Freud a Teheran: una chiacchierata con Gohar Homayounpour

Il lettino di Freud a Teheran: una chiacchierata con Gohar Homayounpour
di Carla Massi
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Mercoledì 21 Agosto 2013, 16:42 - Ultimo aggiornamento: 27 Agosto, 16:19
Freud, 1905, un dialogo raccontato negli scritti teorici. Questo lo scambio che il professore narra di aver sentito: «Zia, parla con me, ho paura del buio» disse un bimbetto di tre anni. La zia allora gli rispose: «Ma a che serve? Così non mi vedi lo stesso». «Non fa nulla - ribatté il bambino, - se qualcuno parla c’è la luce».



La parola come illuminazione del nero interiore, di un mondo segreto che si sovrappone a quello visibile. Un dialogo citato come insegnamento del maestro che appare e scompare nel viaggio intimo (dell’analista e dei suoi pazienti) che troviamo del libro di Gohar Homayounpour «Una psicoanalista a Teheran» (Raffaella Cortina editore). Una psicoanalista di trentasei anni, e da pochi giorni mamma di una bimba, che ha studiato e si è formata in Occidente ma che ha voluto tornare a casa, in Iran. Dove, lei dice: «È possibile fare il mio lavoro come in ogni parte del mondo perché il dolore è dolore ovunque».



ROSSETTO JIHAD

Proprio partendo da questo assioma la psicoanalista lascia sullo sfondo la cultura iraniana e mette in rilievo le storie dei pazienti. Una narrazione che invita alla lettura sia gli addetti ai lavori sia chi non sa di psicoanalisi ma ha voglia di scoprire come le angosce, le piccole e grandi fobie, le paure e le ossessioni non hanno bandiere. Apolidi, in qualche modo. Una narrazione in cui Gohar Homayunpour azzarda a portare avanti, parallelamente e con la stessa forza, il suo disagio dell’essere tornata nella terra natale (sogni, associazioni di pensieri, eccessi di autostima alternati a timori di non essere adeguata) al disagio dei suoi pazienti.



C’è ironia, ci sono le citazioni freudiane (l’interpretazione di Gradiva torna più volte), c’è l’omaggio a Milan Kundera (il padre della psicoanalista ha tradotto i suoi libri in farsi, la lingua iraniana), c’è la rabbia nel far sapere a tutti che questo libro, per uscire, ha dovuto subire attacchi e frustrazioni. Qualcuno le aveva suggerito di cambiare il titolo in «Diventare matti a Teheran». Altri speravano che lei sottolineasse l’incontro scontro tra le teorie di Freud sulla sessualità e l’etica islamica. «So quanto sia diffuso erotizzare il chador - spiega - usare espressioni come “rossetto Jihad” raccontare che gli uomini iraniani picchiano le donne o caricare di fascino erotico, appunto, la calligrafia iraniana. Non intendo dare colpa di tale fenomeno all’Altro, la do a noi stessi, che restiamo fissati all’immagine orientale riflessa negli occhi dell’Altro». Poi l’uscita del libro negli Stati Uniti e adesso anche in Italia. Con la prefazione-benedizione del maestro (saggio) regista iraniano Abbas Kiarostami, classe 1940.



POLTRONA SBAGLIATA

Non c’è folklore tra le pagine. Ma nelle storie si possono rispecchiare uomini e donne di ogni parte del mondo. E, sicuramente, anche molti psicoanalisti di ogni parte del mondo. Le sedute con i pazienti sono continuamente interrotte da digressioni ma la storia delle persone c’è tutta: una celebre artista sogna di essere abbandonata e si siede sulla poltrona dell’analista anziché sceglierne un’altra o sdraiarsi sul lettino, una donna di 24 anni avvolta nel chador urla tutta la sua vergogna per aver perso la verginità, un camionista (all’inizio mal giudicato dalla psicoanalista) che dice di voler capire meglio se stesso e sogna di andare a letto con la madre, la sorella e la cognata. I complessi di Edipo, la dipendenza dal sesso, la paura del buio si intrecciano con racconti personali dell’autrice nata a Parigi da genitori iraniani, trasferita poi in Canada, studentessa a Boston e ora a Teheran. Vive la sua vita divisa tra il chador e gli studi, tra le analisi didattiche e le supervisioni nel Gruppo freudiano della sua città e l’insegnamento di Psicologia all’università Shahid Beheshti. E proprio il suo narrare dimostra come il dolore, la nevrosi e i conflitti interiori sono uguali nel profondo nonostante la storia, l’eredità culturale e le rivoluzioni. La dedica è a due donne della famiglia: «A Darya e Yassamine, perché sono quali sono».
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