IMPEGNO CIVILE
Il tono generale di questo libro (Il mio cuore è più stanco della mia voce, Rizzoli editore, 205 pagine, 15 euro) ricorda quello dei pamphlets scritti dopo gli attentati dell’11 settembre ma i temi sono ovviamente diversi benché tutti sostenuti da un uguale, forte impegno civile. Ai suoi ascoltatori dello Harvard Institute of Politics, del Columbia College di Chicago, dell’Unterberg Poetry Center di New York, e dell’Annenberg Centre for Health Society dove si rivolgeva a un pubblico di medici, Fallaci non ha fatto mancare nulla della sua visione del mondo, la polemica, la trasgressione, l’inflessibilità, la sfida alle idee comuni. E citava la clamorosa intervista al segretario di Stato Henry Kissinger al quale aveva chiesto le ragioni del suo successo, ed egli lasciandosi andare si paragonò ad un cowboy «che guida la carovana, che entra tutto solo nel villaggio. Come nei western» suscitando polemiche e persino i rimbrotti di Nixon. Uscito come uomo vanitoso, il capo della diplomazia americana tentò di smentire le frasi, inchiodato dalle prove prodotte dalla giornalista.
Le conferenze provocavano talvolta incidenti, che avendo frequentata Oriana per decenni, posso ritenere voluti e graditi. Come accadde ad Harvard: applausi e fischi si erano trasformati in parapiglia, la polizia del campus era dovuta intervenire, «gli studenti si picchiavano come ossessi e un vecchio professore voleva picchiare me». Andò anche peggio, con sua grande soddisfazione, nel 1983 a Buenos Aires. Il regime dei generali stava per schiantarsi, le elezioni libere erano imminenti e Fallaci andò a presentare il suo ultimo libro, Un uomo. A qualcuno tra il pubblico non garbarono gli accenni ai desaparecidos e alle torture inflitte agli oppositori, Oriana reagì a modo suo, un paio di giornalisti argentini la insultarono, scoppiò un subbuglio, la scrittrice gridò: «I giornalisti argentini non hanno avuto coraggio di denunciare i crimini dei generali… senza giornalisti di regime questa dittatura non poteva sopravvivere!». La stampa reagì chiedendo il suo arresto o l’espulsione dal paese. Il libro comunque andò a ruba.
TRADUZIONI
Pur non conoscendo bene la lingua spagnola, Oriana aveva voluto curare lei stessa la traduzione anche di Un uomo. Non si fidava dei traduttori. Li viveva come una dolorosa fatalità. Scrittrice in puro toscano, temeva che essi tradissero ritmi, suoni, echi, allusioni. Poiché parlava sia il francese, sia l’inglese, volle partecipare direttamente ai lavori per tutti i suoi libri in quelle lingue. Io lavoravo allora come corrispondente della Rai a Parigi. Era da poco uscita l’edizione italiana di Insciallah, il romanzo sulla guerra in Libano. Venne a Parigi per la traduzione in francese presso l’editore Gallimard, che aveva mobilitato il miglior linguista sulla piazza. Nel rileggere il primo capitolo Oriana aveva avuto una crisi di nervi. «Una indegnità», gridava nei corridoi, «una vergogna!» Le diedero un altro traduttore (una professoressa universitaria) e le crisi si erano ripetute. Finì che la cattedratica traduceva, passava le cartelle alla Fallaci che ritraduceva implacabilmente. Sempre tesa, sovreccitata. La salute vacillava, il cancro che doveva ucciderla si faceva sentire. Da vecchio amico cercavo di distrarla, tenerla lontana da quel lavoro ma lei pensava soltanto al libro. Riscrisse da cima a fondo l’opera della professoressa e pretese che la firma del traduttore fosse il nome di una persona inesistente, Victor France. Uscendone vincitrice totale e facendo apparire sul libro una definizione mai apparsa nella storia delle letterature mondiali: «Translation by Oriana Fallaci from a translation by James Marcus», traduzione di Oriana Fallaci da una traduzione di James Marcus.
«Sono una donna scomoda che dice cose scomode», era stato l’incipit della conferenza di Buenos Aires. Scomoda anche a se stessa. Fu a lungo inviata nel Vietnam, facendosi molti nemici per avere condannato gli orrori compiuti dagli anticomunisti del sud. Dopo il conflitto aveva voluto visitare anche il nord e denunciò con altrettanto vigore gli orrori del regime comunista di Hanoi. Libro sincero, che dice su Oriana Fallaci molto più e meglio di quanto abbiano detto i suoi romanzi, le sue interviste planetarie, i resoconti di guerre e rivoluzioni, i pamphlets sui musulmani. Un libro indispensabile per cogliere i segreti di una donna che resta tra le più eminenti giornaliste del Novecento.
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