Melville e la Roma di marmo, in “Viaggi e balene”

Melville e la Roma di marmo, in “Viaggi e balene”
di Oliviero La Stella
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Lunedì 27 Maggio 2013, 08:44 - Ultimo aggiornamento: 28 Maggio, 18:31
ROMA - Lo sguardo appannato dall’abitudine, la mente distratta dalle incombenze quotidiane, noi romani non ci accorgiamo delle migliaia di muti ROMA - Lo sguardo appannato dall’abitudine, la mente distratta dalle incombenze quotidiane, noi romani non ci accorgiamo delle migliaia di «muti cittadini» che costituiscono «la vera e immortale popolazione di Roma». Sono le statue. «Rappresentanti di un tempo poderoso, stringono le mani al presente e rappresentano l’anello di congiunzione tra i secoli». Il richiamo ci viene da Herman Melville: sì, proprio lui, l’autore di Moby Dick. Per il quale questi marmi, «opere di sognatori e idealisti di un tempo, vivono, conducono e puntano al bene».

L’INEDITO

Il grande scrittore statunitense non viaggiò solo per mare. Nell’inverno tra il 1856 e il 1857 visitò l’Italia restando profondamente affascinato da Roma e dalle sue statue, alle quali dedicò – al ritorno - una conferenza pubblica. Quel prezioso testo andò perduto, ma ora è stato recuperato grazie a una complessa ricerca sui giornali dell’epoca. In Italia è stato appena pubblicato in un libro della piccola e giovane casa editrice Clichy, insieme con altri testi inediti dello scrittore: una seconda e una terza conferenza, dedicate ai Mari del Sud e alle «gioie, dolori e profitti» dei viaggi, un paio di recensioni di libri sul tema della caccia alle balene e alcuni divertenti aneddoti sul rude e intrepido generale Zachary Taylor, eletto nel 1848 presidente degli Stati Uniti. Curato e tradotto da Fabrizio Bagatti, il libro si intitola Viaggi e balene (157 pagine, 8 euro).

Melville arriva a Roma proveniente da Napoli, passando per Porta San Giovanni. Di fronte alla basilica di San Giovanni in Laterano gli sembra di essere accolto e salutato dalle colossali statue di santi che «sormontano, come cicogne, l’alto frontale della chiesa». Quella visione a quanto pare gli ispira il filo conduttore della sua visita alla Città Eterna: incontrare i personaggi dell’antichità, conoscerli. Perché, scrive, «storie e memorie ci raccontano dei loro successi, sul campo, o nel foro, ma qui si trova il loro aspetto e ne facciamo la conoscenza come uomini viventi».

L’INCONTRO CON L’ANTICO

Melville li racconta come fossero suoi contemporanei. D’altronde, dice, «l’aspetto del volto umano è lo stesso in tutte le epoche. Se cinquemila antichi romani si mescolassero a una folla di quelli attuali nel Corso, sarebbe difficile distinguere gli antenati dagli altri, tranne per la differenza nelle vesti». Demostene, «il tonante oratore di Atene», gli sembra «un moderno avvocato, il volto affilato e smunto e il corpo magro». La statua di Giulio Cesare gli restituisce «il volto di un uomo d’affari»: potrebbe essere il «presidente delle ferrovie New York & Erie o di qualsiasi altra magnifica società».

In altre fisionomie Melville rileva una forte contraddizione con il pensiero e le azioni dei personaggi raffigurati, così come ci sono stati tramandati dalla storia. Socrate, dice, ha «la faccia ampia a rubiconda di un comico irlandese», mentre il viso di Seneca gli pare «quello di un gestore di banco di pegni disilluso, oppresso e addolorato». Anche Platone lo sorprende: «Le lunghe ciocche fluenti di quell’aristocratico trascendentalista sono state spartite con la stessa cura di una bella ragazza moderna e la barba andrebbe a pennello a un raffinato veneziano». Aggiunge: «Se questo busto fosse veridico, egli avrebbe potuto comporre le sue opere meditando sui destini del mondo sotto la mano di un parrucchiere». Pure il mitico «Ercole Farnese» (oggi al Museo archeologico nazionale di Napoli) gli si presenta con un’immagine diversa da quella che s’aspettava: «Questa statua non ha la rapida, intelligente, forza energetica che dovremmo supporre peculiare nel fortissimo Sansone o del possente Ercole, quanto invece un carattere come quello del bue pigro, sicuro della propria forza ma restio a usarla. Non è fatta per le bazzecole: è riservata solo per le grandi occasioni».

L’INDAGINE

Nella sua esplorazione lo scrittore si addentra poi su un altro sentiero: le statue che osserva gli offrono infatti lo spunto per un’indagine sull’animo degli antichi romani. «Le quiete, tranquille e pacifiche scene della vita pastorale sono rappresentate – scrive – in alcuni esempi dell’ultima statuaria romana proprio come le troviamo descritte dal migliore di tutti i poeti pastorali, Wordsworth. Il pensiero che molte di queste belle figure siano state gradite ai Romani ci persuade almeno che la loro violenza come popolo conquistatore non li aveva del tutto pervasi e che la fiamma della bontà accesa per natura nella maggior parte degli uomini non si era mai del tutto spenta nel loro cuore». Queste statue, afferma, ci fanno scoprire «che l’antico romano, severo e duro di cuore come di solito lo immaginiamo, non era del tutto privo di tenerezza e compassione, perché se anche gli antichi ignoravano i principi del Cristianesimo c’erano in loro i germi di quello spirito». Una conferma a questa sua tesi Melville ritiene di trovarla nel «Galata morente», copia romana del bronzo di Epigono esposta nei Musei Capitolini. «Nessuno, se non un cuore gentile – sostiene – potrebbe aver concepito l’idea del “Gladiatore morente”, ed è stato cristiano in tutto tranne nel nome».

La tesi del romano «buono», portatore nell’animo dei «germi» del Cristianesimo, è l’esito sorprendente dell’esperienza romana di Melville, e il fascino di questo suo testo.
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