Lo skyline dell'Infinito, così nacque il paesaggio caro a Leopardi

Lo skyline dell'Infinito, così nacque il paesaggio caro a Leopardi
di Renato Minore
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Sabato 29 Marzo 2014, 13:23 - Ultimo aggiornamento: 11 Aprile, 11:04
​Nel piccolo poggio che si spalanca sulle colline maceratesi fino ai monti Sibillini, Giacomo Leopardi saliva lungo la strada di Santo Stefano accanto al suo giardino fino al monte Tabor. Alle spalle Recanati, si abbandonava al piacere consolatorio delle verità immaginarie. Così, in un pomeriggio del 1819, ventunenne, ebbe la sensazione che l'apparente infinito di quella distesa naturale si dilatasse ancor più. L’idea d’infinito balenava da un’estasi cieca davanti alla natura, da un occhio del cuore innalzato di là dalla siepe che escludeva la vista. E dal dissidio tra l’esattezza di quell’idea e la vaghezza delle sensazioni, tra l’idea d’infinito e la cognizione empirica del tempo e dello spazio che trascina con sé anche l’idea del nulla del mondo e del decentramento assoluto dell'uomo rispetto alle altre cose esistenti. Nasceva così lo skyline figurale e reale dei quindici versi dell’“Infinito”, la siepe che dimezzando lo "sguardo dell'ultimo orizzonte" porta l'animo a figurarsi "sovrumani silenzi", "profondissima quiete, "interminati spazi" e, dunque, "l'eterno".



FUGA E RECLUSIONE

Il destino di Leopardi fu sempre diviso tra ascesi e ribellione, pendolante tra desiderio di fuga e bisogno di reclusione. E può anche essere raffigurato dalla passeggiata sul Monte Tabor, dal linguaggio dello sgomento e del fascino che si accorda con le meravigliose vibrazioni di cellule nascoste nel testo dell’“Infinito”. Recanati era «il tartaro ma anche il centro del suo mondo» in quella piccola cellula di solidarietà che aveva costituito col fratello Carlo e la sorella Paolina, le infrazioni clandestine alle severissime norme domestiche, le parolacce e le bestemmie complicemente sussurrate. È facilmente intuibile che un giovane deforme e cagionevole, con gli occhi ammalati e perennemente cisposi, potesse avere qualche problema riguardo all'accettazione di sé da parte degli altri. Dai ragazzotti di Recanati che al suo passaggio canticchiavano sghignazzando alle donne che, pur magari apprezzandolo intellettualmente, gli negavano ostinatamente qualsiasi gratificazione sessuale alla madre che non gli aveva mai concesso una carezza; al padre che con la sua stima sospettosa e reticente lo teneva costantemente a distanza. Di qui il bisogno di fuga, i viaggi intrapresi verso Roma, Pisa, Milano, Bologna, Firenze. Roma fu una terribile verifica, uno spartiacque realistico per misurare il suo desiderio di andare via con la "rugosa realtà" del nuovo ambiente, delle nuove abitudini, dei nuovi spazi. E alla fine ci fu Napoli chiassosa dei Lazzaroni e dei Pulcinella, con quel suo vivere esagerato che non poteva non attrarre, per contrasto uno come Leopardi portato per sua natura al silenzio, alla riflessione, alla macerazione.



Colpisce la sua mirabile capacità di ricavare da tutto (anche dalla più opaca erudizione) una’idea dell'uomo, del mondo, del rapporto con la natura, dei rapporti con (e tra) gli uomini. Ai contemporanei sfuggiva questa totalità, o forse non sapevano che farsene: l'"esplosione" di una creatività immensa (quella di Giacomo) e di segno opposto rispetto ai modelli culturali vigenti che impediva a chi gli era accanto di sentire davvero "contemporaneo" Leopardi. Il " viaggio" di Leopardi nell'incomprensione dei contemporanei è un catalogo impressionante di fraintendimenti, riduzioni maligne, ingenue enfatizzazioni.



Questo giovane uomo così provato, con la sua posizione verso la vita, il rapporto con la natura, la ricerca sulla felicità e sul valore delle illusioni, compie un percorso fisico e psicologico di straordinaria importanza dal punto di vista dell'esperienza. È un viaggio in Italia, ed è l'Italia che parla attraverso di lui. Così, accanto al grandissimo poeta della luna e dell’infinito c’è anche il l’antropologo del costume nazionale: quello del «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani», delle tante schegge contenute nell’epistolario. O in quel libro dei libri che è Zibaldone.



GLI ITALIANI

Con gli italiani non è tenero. Li reputa indifferenti, cinici, pronti a ridere di sé e degli altri, sempre pieni di disprezzo per ogni cosa, pronti a usare la denigrazione o comunque il dileggio. Un Paese, il nostro, rimasto arretrato rispetto alle linee di sviluppo della civiltà europea, che non ne possiede i fondamenti morali e ha perduto quelli antichi, distrutti dalla stessa civiltà. Ogni italiano fa regola e maniera a sé, affogato nel presente e senza la prospettiva di un qualsiasi futuro. Insomma quella leopardiana è una aperta e in parte ironica celebrazione del buon senso di un popolo che è abituato a non prendere sul serio neppure il proprio cinismo. Immorali e narcisi questi italiani sono uomini di mondo, conoscono la vanità dell'esistenza e l'inutilità di applicarsi ad essa. Come la tendenza all'autocondanna che è potentemente radicata nella psiche nazionale. E l'Italia è lo strano e a suo modo singolare paese su cui è difficile esprimere un pensiero che non sia negativo. Quell'Italia immersa in un Ottocento cupo, quegli italiani che con disincanto egli non pensava neppure unificabili sotto una sola nazione, li conosceva non soltanto attraverso i libri e la letteratura. Ma anche, e soprattutto, attraverso la consuetudine e la "disperata speranza" della frequentazione.
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