«La mia tv senza politici», Fabio Fazio racconta la nuova formula dei suoi programmi

«La mia tv senza politici», Fabio Fazio racconta la nuova formula dei suoi programmi
di Marco Molendini
5 Minuti di Lettura
Domenica 22 Novembre 2015, 00:25 - Ultimo aggiornamento: 10 Dicembre, 09:11
Giorni strani per la tv, divisa fra la voglia di andare avanti e la necessità di raccontare la dura realtà, a volte esagerando, spesso ripetendosi. Non è facile restare in equilibrio. Fabio Fazio, nel suo pregiato doppio salotto, il sabato con Che fuori tempo che fa e la domenica con Che tempo che fa, ha dovuto farci i conti subito, dalla settimana scorsa, immediatamente dopo la tempesta di Parigi.



«Abbiamo ricostruito interamente il programma - ci tiene a far notare - provando a restare lontani dalla retorica e dal rischio di essere pedagogici, cosa che detesto».



Ma come si maneggia la tensione, dovendo fare intrattenimento?

«Prima di tutto con la consapevolezza di non voler cambiare. Non si tratta di far finta di nulla, ma semplicemente di fare il nostro mestiere. E sentirsi "parigini estesi", come ha invitato il sindaco Hidalgo nel suo magnifico discorso. Cioè sentire Parigi come luogo che, con l'eredità dell'illuminismo, ha costruito i nostri valori».



La tensione è arrivata su una tv sommersa dal bla bla bla degli innumerevoli talk politici.

«E, infatti, noi cerchiamo di invitare sempre meno politici, puntando su un programma sempre più pop. Così ora, accanto ai miei autori, lavorano tre trentenni. Abbiamo cambiato l'appuntamento del sabato che, con l'idea del tavolo, è diventato un luogo sorprendente con l'ironia modernissima di Frassica, l'autorevolezza di Gramellini e con Fabio Volo, con cui facciamo una sorta di Fabio & Fabio. E il risultato è confortante: due punti di share sopra l'anno scorso».Giorni strani per la tv, divisa fra la voglia di andare avanti e la necessità di raccontare la dura realtà, a volte esagerando, spesso ripetendosi. Non è facile restare in equilibrio. Fabio Fazio, nel suo pregiato doppio salotto, il sabato con Che fuori tempo che fa e la domenica con Che tempo che fa, ha dovuto farci i conti subito, dalla settimana scorsa, immediatamente dopo la tempesta di Parigi. «Abbiamo ricostruito interamente il programma - ci tiene a far notare - provando a restare lontani dalla retorica e dal rischio di essere pedagogici, cosa che detesto».



Ma come si maneggia la tensione, dovendo fare intrattenimento?

«Prima di tutto con la consapevolezza di non voler cambiare. Non si tratta di far finta di nulla, ma semplicemente di fare il nostro mestiere. E sentirsi "parigini estesi", come ha invitato il sindaco Hidalgo nel suo magnifico discorso. Cioè sentire Parigi come luogo che, con l'eredità dell'illuminismo, ha costruito i nostri valori».



La tensione è arrivata su una tv sommersa dal bla bla bla degli innumerevoli talk politici.

«E, infatti, noi cerchiamo di invitare sempre meno politici, puntando su un programma sempre più pop. Così ora, accanto ai miei autori, lavorano tre trentenni. Abbiamo cambiato l'appuntamento del sabato che, con l'idea del tavolo, è diventato un luogo sorprendente con l'ironia modernissima di Frassica, l'autorevolezza di Gramellini e con Fabio Volo, con cui facciamo una sorta di Fabio & Fabio. E il risultato è confortante: due punti di share sopra l'anno scorso».




Vedo che parla di share. Eppure oggi il sistema dell'Auditel è sub iudice.

«Io penso che l'Auditel per la tv sia stata una salvezza».



Ce la spiega questa?

«Ho cominciato a far tv prima dell'era degli ascolti del meter e, allora, il destino dei programmi era affidato al gradimento che i direttori attribuivano a una categoria indistinta: la gente. Che in genere erano figli, mogli, amici loro. L'Auditel ha portato persino un tocco di democrazia. Il guaio è quando quella democrazia diventa demagogia».



Oggi i conti si fanno anche con la nuova tv, con Netflix, Sky, l'on demand.

«Ma il pubblico non fa distinzioni così nette. Guarda quello che gli va. Per questo c'è bisogno di un pensiero forte, di idee e proposte che si facciano notare, di reti dalla personalità robusta».



La Rai è in grado di rispondere a queste sfide?

«Noto che per la prima volta, da molto tempo a questa parte, la tv pubblica ha vertici che vengono dal prodotto come la presidente Maggioni, il dg Campo Dall'Orto e il consigliere Freccero».



Torniamo al suo programma. Evitate i politici, ma avete invitato Varoufakis, suscitando violente polemiche sul cachet.

«L'80 per certo degli ospiti vengono gratis. Come Madonna e Bono. A breve spero di avere Adele. A volte, invece, investiamo, pur avendo un budget ridicolo. Ma non ha senso parlare di costi senza parlare di ricavi. Se fai il salumiere il prosciutto prima di venderlo devi comprarlo».



Varoufakis come il San Daniele?

«I costi in un'azienda possono essere investimento. Noi abbiamo 12 minuti di pubblicità a puntata che rendono 55 mila euro ogni 15 secondi».



C'è chi se la prende ciclicamente con i compensi delle star come lei e ne chiede la pubblicazione.

«Il mio viene pubblicato ogni anno nella dichiarazione dei redditi ed è accessibile a tutti. Non c'è azienda al mondo che aiuti il concorrente rivelando le proprie cifre interne».



A che punto siamo con la rivisitazione del Rischiatutto?

«In teoria dovrebbe andare in primavera. Noi siamo pronti, stiamo facendo i provini».



Che senso ha riproporlo oggi?

«È come mettere in moto una macchina del tempo. È la riappropriazione di un patto antico fra Rai e pubblico. Ma soprattutto è il riscatto della passione e della competenza in un mondo in cui vai in tv se sai cantare una mezza canzone e la conoscenza corrisponde alla consultazione di Wikipedia. Al Rischiatutto rispondi solo se sai la risposta, senza telefonini o Internet: il pubblico in studio consegnerà cellulari, tablet, iWatch. Li perquisiremo. Sarà quasi un reality, ma senza tradirne la storia, visto che fra gli autori ci sarà Ludovico Peregrini, che l'aveva fatto ai tempi di Mike».



Il suo futuro, però, resterà ancorato a Che tempo che fa?

«Nella mia carriera ho sempre scelto di usare un programma scudo da cui partire per farne altri come quello del sabato, come Vieni via con me,
Quello che non ho e i due Sanremo. Fare tv non vuol dire fare se stessi, ma provare a intercettare quello che accade fuori. Così facendo, cambi per forza».
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