Enrico Morando: «Elly sbaglia su Jobs act e Giustizia, così porta i riformisti alla scissione»

Enrico Morando: «Elly sbaglia su Jobs act e Giustizia, così porta i riformisti alla scissione»
di Alberto Gentili
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Sabato 11 Maggio 2024, 08:00

«I l sì al referendum dell'abolizione del Jobs act è mistificazione e propaganda: non si tornerebbe all'articolo 18. Il Pd con Schlein rinnega la sua vocazione riformista». Enrico Morando, 73 anni, nella sinistra non è di passaggio. Migliorista e riformista, ex viceministro dell'Economia, dagli anni '70 in poi ha seguito l'intera metamorfosi del Pci-Pds-Ds-Pd, trovandosi al fianco di Walter Veltroni quando nel 2007 venne tenuto un battesimo il Partito democratico. Il giudizio sulla segreteria Schlein è severissimo: «Mostra un deficit di proposta, dovrebbe dire di sì alla separazione della carriera dei giudici e confrontarsi sul premierato invece di alzare un muro di no».

Cosa ne pensi della decisione di Schlein di firmare il referendum della Cgil contro il Jobs act?

«Tutto il male possibile, non mi piace come sta trasformando il Pd. Però svela, una volta per tutte, la decisione di spostare radicalmente a sinistra l'asse del partito. Dire che firmerà a titolo personale è una foglia di fico. In più ci sono forti contraddizioni nel merito dei quesiti».

Quali contraddizioni?

«Il quesito rivolto ad abolire il contratto a tutele crescenti del Jobs act è fondato e questo perché ci sono stati due interventi. Il primo è del Conte I che ha portato il massimo indennizzo da 24 a 36 mesi della retribuzione del lavoratore licenziato illegittimamente. Il secondo è della Consulta che ha tolto la formula in base alla quale l'indennizzo cresce con l'anzianità lavorativa, lasciando al giudice il compito di definire l'indennità. Quindi il referendum non ha per oggetto il Jobs act e se il sì vincesse non si tornerebbe, come si allude, all'articolo 18 ma all'ultima modifica, Monti-Fornero-Bersani, e si avrebbe un effetto clamoroso: l'indennizzo massimo per il lavoratore scenderebbe da 36 a 24 mesi».

Il sì un danno ai lavoratori?

«Esattamente. Ma per Schlein, come dicevo, attaccare il Jobs act significa svoltare a sinistra. Invece in quella riforma c'è molto di sinistra, tant'è che contiene la norma che ha permesso ai rider di Torino di avere la tutela del rapporto di lavoro subordinato, c'è l'aumento della Naspi, c'è la norma che ha abolito i famosi Co-co-pro. E, soprattutto, c'è l'estensione ai lavoratori delle piccole imprese della cassa integrazione. Insomma, Schlein fa un'operazione di mistificazione etichettando il Jobs act come una riforma di destra. E nega la realtà».

Schlein e Landini sostengono che il Jobs act ha fatto aumentare la precarietà nel mondo del lavoro.

«È vero il contrario. Il Jobs act combatte il precariato e non solo perché abolisce i Co-co-pro, ma anche perché ha cancellato lo scandalo delle dimissioni in bianco che colpiva soprattutto le donne e ostacola il ricorso alle partite Iva false. In più, parlano i numeri dell'Inps: negli ultimi quindici anni gli assunti a tempo indeterminato sono aumentati».

Dunque sarebbe solo una scelta strumentale quella della sua segretaria?

«Sì. E sta venendo al pettine il vero nodo strategico: come si costruisce una credibile proposta di governo alternativa al governo Meloni, che oggi non c'è? Per Schlein e la sua maggioranza si può costruire questa alternativa con un partito di sinistra-sinistra, massimalista, alleato del M5S di Conte, abbandonando l'utopia di una forza riformista di centrosinistra a vocazione maggioritaria. E mettono nel conto, anzi auspicano, che le forze della sinistra liberaldemocratica lascino il Pd dando vita a un nuovo partito con cui la sinistra-sinistra poi si dovrebbe alleare».

Sta dicendo che Schlein lavora alla scissione?

«Sto dicendo che le conseguenze della sua linea sono queste.

Ma è una scelta sbagliata. Per due ragioni. La prima: chi ha fatto scissioni deve combattere per raggiungere le soglie minime di sopravvivenza. La seconda: come accade in Francia dove il Ps era dato per morto e ora sta rinascendo, o come sta succedendo in Gran Bretagna dove il Labour dopo Corbyn sta ritrovando la sua identità riformista, anche in Italia tornerà a prevalere la vocazione liberaldemocratica. La sconfitta non è per sempre. Il Pd, prima o poi, tornerà a essere il Pd».

Nel frattempo però il suo partito alza un muro di no su ogni riforma – dal premierato alla separazione delle carriere dei giudici – senza avanzare controproposte. Il Pd paradossalmente è diventato conservatore e la destra tenta di essere riformista?

«Il limite di Schlein è la capacità di proposta. L’esigenza propagandistica di contrastare le scelte del centrodestra, la spinge sul terreno del rifiuto di ogni riforma proposta dall’esecutivo Meloni. Ma il partito del no non è una credibile alternativa di governo. Non riesce a incidere. E il caso del premierato è eclatante: il centrosinistra da decenni sostiene che la riforma delle forma di governo debba ispirarsi alla formula del governo del primo ministro, tant’è che il relatore Salvi nella Bicamerale presieduta da D’Alema propose il semipresidenzialismo o il premierato. E il premierato è anche nella tesi numero uno dell’Ulivo. Ma adesso che il centrodestra sforna una riforma piena di contraddizioni si riesce solo a dire di no, senza suggerire utili correzioni. Un grave errore».

Anche sulla giustizia il Pd potrebbe dire qualcosa: Violante ha sempre caldeggiato un riequilibrio tra potere politico e giudiziario…

«Sono sempre stato d’accordo con Violante. Una sinistra moderna dovrebbe essere favorevole alla separazione delle carriere, anche perché questa riforma darebbe attuazione all’articolo 111 della Costituzione che dice: il processo penale contrappone, in condizioni di parità, accusa e difesa davanti a un giudice terzo. Ma se la carriera del giudice e del portatore dell’accusa è la stessa, come fa il giudice a essere imparziale?».

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