La scuola, governata localmente, è stato il principale strumento di questa trasformazione: indottrinamento a favore della “catalanità”, diminuzione al minimo delle ore di spagnolo, trattata come lingua straniera, divieto agli alunni di usare la lingua spagnola, multe agli esercizi pubblici che la usavano, difficoltà al trasferimento di professionisti provenienti dal resto dello stato spagnolo. La scuola è quindi un ottimo mezzo per creare e sopprimere delle identità culturali ed è stata spregiudicatamente utilizzata dalla politica nel corso della storia recente.
Non credo di esagerare affermando che in futuro affidare la gestione delle nostre scuole pubbliche ai livelli regionali possa anche costituire un pericolo per l’unità nazionale.
Già oggi la scuola italiana procede a diverse velocità, con il Meridione che arranca faticosamente: basta guardare i dati della dispersione scolastica ed anche lo stato fatiscente degli edifici. Se malauguratamente si seguisse il criterio della “spesa storica”, le disuguaglianze tra una zona e l’altra del Paese si accentuerebbero.
Qualche politico ha pubblicamente dichiarato di voler introdurre l’insegnamento del dialetto locale nelle scuole pubbliche, previa formazione degli insegnanti provenienti da altre regioni e ciò non costituisce sicuramente un buon segnale rispetto alla tenuta unitaria del nostro Paese. Oggi la libertà di insegnamento è garantita dalla Costituzione, ma l’esperienza ci dimostra che il politico, quando è troppo vicino, non resiste alla tentazione di mettere lo zampino su ciò che si deve insegnare e qualche volta (vedi esperienza di Bolzano) addirittura sulla metodologia didattica. Le interferenze sulla libertà di insegnamento di una scuola regionale costituiscono quindi un pericolo reale.
È stata ventilata la possibilità di differenziare le retribuzioni degli insegnanti sulla base della regione dove si lavora, giustificandola con la differenza del costo della vita, è ovvio che una simile ipotesi provocherebbe la migrazione dei docenti verso le regioni con una retribuzione più elevata, a danno delle regioni più povere che rischierebbero la desertificazione culturale.
Le differenziazioni retributive potrebbero essere ancora più accentuate se si favorisse, ovviamente nelle zone già più ricche, l’afflusso di capitali privati nelle scuole.
La Costituzione, all’articolo 36, afferma con chiarezza che le persone che svolgono lo stesso lavoro debbono ricevere lo stesso trattamento economico. Un principio che, nella realizzazione di forme di autonomia regionale accentuate, rischia di venire contraddetto in modo pesante.
Infine non va trascurata la tendenza di questo momento storico ad affievolire i diritti dei lavoratori. È abbastanza ovvio che una regionalizzazione della scuola e del personale che vi lavora vedrebbe logicamente identica sorte per le organizzazioni che tutelano i lavoratori, che ne uscirebbero indebolite rispetto a quelle che oggi sono le grandi organizzazioni nazionali.
Purtroppo sembra che queste importanti modifiche al nostro ordinamento stiano avvenendo nella grande distrazione dell’opinione pubblica, compresa la nostra categoria. Forse sarebbe il caso di aprire gli occhi.
* Coordinatore nazionale
della Gilda degli insegnanti
© RIPRODUZIONE RISERVATA