Un nuovo ruolo nel mondo: quattro sfide per l’America

Un nuovo ruolo nel mondo: quattro sfide per l’America
di Mario Del Pero
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Mercoledì 9 Novembre 2016, 00:19

Esausti, disillusi, divisi al loro interno, gli Stati Uniti che riemergono da questo voto rimangono la principale potenza del sistema internazionale. Il loro declino relativo, la linea meno interventista adottata dall’amministrazione Obama e la contestuale, significativa riduzione delle spese militari c’inducono talora a dimenticarlo. E di certo la brutta campagna elettorale cui abbiamo assistito non ha aiutato a ricordarlo. In questi mesi, tutto ci sono parsi gli Stati Uniti e la loro democrazia fuorché un modello. Di politica estera, poi, i due candidati hanno parlato sì tanto, ben più della norma, ma quasi sempre male. 
Hillary Clinton riproponendo schemi e logiche di vent’anni fa, integrato ora da una profonda e ostentata critica nei confronti della Russia e da concessioni anti-liberiste alla sinistra del partito per lo spazio di una campagna elettorale. Donald Trump mescolando incongruamente le peggiori proposte immaginabili: protezionismo e guerre valutarie; selettivo, ma radicale, interventismo militare; rilancio dei metodi più controversi contro il terrorismo, inclusa la tortura; sconclusionate e irrealistiche promesse di bloccare l’immigrazione e deportare quanti – si parla di circa 12 milioni di persone – si trova illegalmente negli Stati Uniti.

GLI IMPEGNI
Passata la tempesta, è auspicabile si torni alla ragione. Una ragione da dispiegare oggi su quattro direttrici fondamentali. La prima è quella dei rapporti con la Cina. L’asse sino-statunitense, e il teatro che per convenienza chiamiamo dell’Asia-Pacifico, è quello centrale dell’ordine internazionale corrente. È sulla rotta Washington-Pechino che corrono, profonde e contraddittorie, alcune delle interdipendenze fondamentali del sistema globale. 
Le relazioni tra Cina e Usa sono contraddistinte da squilibri profondi, si pensi solo a quelli commerciali e al ruolo di Pechino nel finanziarie il debito statunitense. Squilibri che non sono stati corretti durante i due mandati di Obama. E che s’intrecciano oggi con un quadro regionale contraddistinto da una duplice egemonia, quella commerciale cinese e quella securitaria statunitense. Governare questo mix complesso d’integrazione e scontro, spinte oggettive alla cooperazione e tentazioni antagonistiche, costituirà una delle sfide fondamentali per la nuova amministrazione, che sarà soggetta – come già quella di Obama – alle pressioni anti-cinesi sia di gran parte del mondo repubblicano sia di alcuni alleati, a partire dal Giappone. Gestire efficacemente questo ordine co-egemonico costituirà inoltre precondizione fondamentale di una collaborazione tra i due Paesi da cui dipende qualsiasi progresso della governance globale. Lo si è visto bene nell’azione della comunità internazionale sul tema del cambiamento climatico, che ha portato agli accordi di Parigi. Accordi che sarebbe stato difficile raggiungere se non vi fosse stata la preventiva convergenza tra Stati Uniti e Cina.
Il secondo dossier è ovviamente quello russo-ucraino, che si riverbera sulle relazioni transatlantiche e sui rapporti tra gli Usa e alcuni dei loro principali partner europei. Difficile immaginare svolte repentine e soluzioni nette. Ed è probabile che il cambiamento su questo punto possa giungere più da un’evoluzione del contesto russo, a oggi ancora futuribile, che da una iniziativa statunitense. Da Washington ci si può attendere uno sforzo di stabilizzare la precaria situazione, che a dispetto di quanto non credano molti estimatori di Putin non è propriamente favorevole a Mosca.

LA CAUTELA
Analoga logica, cauta e minimalista, contraddistinguerà l’atteggiamento verso il terzo dossier, quello mediorientale. Messi da parte i visionari piani neoconservatori di trasformazione dell’area, e affrancatisi dalla dipendenza dal petrolio della regione, gli Usa puntano a preservare un equilibrio che permetta di raggiungere diversi obiettivi: tutelare la sicurezza d’Israele; continuare a condurre un’azione anti-terroristica mirata e selettiva; evitare implosioni di soggetti statuali fragili che possono destabilizzare e, come nel caso della Siria, avere dei riverberi ben più ampi, a partire dalla stessa Europa. In questa chiave va letto l’accordo sul nucleare iraniano, finalizzato a depotenziare una potenziale minaccia e, in prospettiva, a reintegrare Teheran nella gestione dei delicati equilibri della regione.
Quarto e ultimo: i grandi accordi commerciali, quello firmato ma non ratificato sul Pacifico e quello, che oggi giace in stato comatoso, sull’Atlantico. Si tratta di negoziati multilaterali complessi, che non dipendono esclusivamente dagli Stati Uniti e da chi li guida. È chiaro però che essi abbiano scontato la prolungata assenza statunitense per la campagna elettorale. Le pressioni interne – e l’ostilità di ampi settori dell’opinione pubblica americana verso le logiche liberoscambiste di tali accordi – inducono a ritenere che essi rimarranno a lungo in naftalina. È però difficile immaginare che la prossima amministrazione non cerchi di riattivarli, magari con qualche concessione ai loro oppositori, non ultimo perché anche da essi dipende la leadership statunitense.
Sullo sfondo resta ciò che il mondo rappresenta per l’America o, meglio, per le tante Americhe che con esso si relazionano: con fiducia o paura, ostilità o empatia. Un mondo che l’America ambisce a rappresentare prima ancora che guidare, per distaccarsene ovvero per sussumerlo. Una polarità - separazione e integrazione, impraticabili tentazioni isolazionistiche e presuntuose volontà interventiste - che abbiamo visto per l’ennesima volta durante la campagna elettorale del 2016.
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