Volto inflessibile della Rivoluzione iraniana della prima generazione, di Khomeini e dell’attuale Guida Suprema Khamenei, il presidente Ebrahim Raisi è stato eletto tre anni fa con il 62 per cento dei voti. A Khamenei lo lega la provenienza dalla stessa città natale, Ashhad, la profonda devozione e l’ortodossia ultra-conservatrice. Nei suoi vent’anni era già un magistrato, in un Paese che con la Rivoluzione era diventato una Teocrazia. E da allora ha scalato tutti i gradini della magistratura religiosa, diventando nel 1988 una sorta di Beria dell’Iran, il procuratore dal quale dipendeva la vita o la morte di migliaia di dissidenti politici che furono giustiziati senza pietà. E, per questo, Raisi è stato sanzionato dagli Stati Uniti. Eppure, la sua figura resta sempre un passo indietro a quella dei carismatici Ayatollah, quale non era, per quanto discendente di Maometto come segnala il suo inseparabile turbante nero. Le sue sorti sono state sempre legate a quelle di Khamenei, che oggi è una Guida azzoppata, vecchio, malato, e poco influente rispetto alla seconda generazione dei pasdaran. Raisi, il cui destino è sprofondato nelle nebbie di una zona impervia, è il presidente che in questi tre anni ha stretto ancora di più i legami con l’ala militare delle guardie rivoluzionarie, consolidando il cordone ombelicale fra Teheran e tutte le fazioni proxy, i militanti dei movimenti terroristici Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza, oltre agli Houthi che hanno scatenato la loro guerra di missili e droni sulle navi non russe e non cinesi che incrociano il Golfo.
TRA PROTESTE E NUCLEARE
Ma Raisi è anche il presidente ultra-conservatore che si è trovato a fronteggiare le più vaste e testarde manifestazioni soprattutto di giovani e intellettuali nelle piazze e nelle strade, dopo la morte in carcere di Mahsa Amini, la 22enne curdo-iraniana colpevole di avere indossato male il velo.
“IL MACELLAIO DI TEHERAN”
Con lui, e se ne parla poco, c’è un’altra figura notevole, il ministro degli Esteri, Hossein Amirabdollahian, che per conto degli Ayatollah ha tenuto rapporti continui con i leader dei movimenti proxy, con Nasrallah anima degli Hezbollah libanesi. Raisi, vivo o morto, non riuscirà a scrollarsi di dosso il soprannome che gli fu dato nell’88, “macellaio di Teheran”, retaggio del suo momento forse di maggior potere prima di diventare presidente, quando divenne il braccio esecutivo della repressione khomeinista. Un alto dignitario, non un leader. Anche la sua morte o sopravvivenza sono avvolte, come la sua vita, nel grigiore delle nebbie.