Raisi morto, Israele: per noi non cambia niente. La guerra (non dichiarata) con l'Iran

Quello che si sta consumando in queste ore all'interno del governo appare come un gioco sottile in cui più che mostrare le proprie carte ognuno cerca di scoprire quelle degli altri

Raisi morto, Israele: per noi non cambia niente. La guerra (non dichiarata) con l'Iran
di Raffaele Genah
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Lunedì 20 Maggio 2024, 06:37 - Ultimo aggiornamento: 14:39

Per tutto il pomeriggio, è stato un passaparola continuo. Le radio, i canali tv, i social hanno seguito tutti gli aggiornamenti delle notizie che arrivavano dall'Iran sulla sorte dell'elicottero del presidente Ebrahim Raisi, il leader di Teheran che solo qualche settimana fa aveva ordinato la pioggia di missili e droni - oltre trecento - lanciati contro Israele in risposta all'uccisione di un suo capo militare in Siria. Israele e Iran si affrontano da anni in una guerra ufficialmente non dichiarata, combattuta da Israele a colpi di omicidi mirati, di spericolate operazioni di intelligence per cercare di rallentare il progetto nucleare di Teheran, di incursioni hacker nei sistemi sensibili. A questo la teocrazia degli ayatollah ha opposto il suo ruolo di capofila di una coalizione di gruppi sciiti disposti a fare fronte comune anche con organizzazioni sunnite - come Hamas, filiazione dei Fratelli Musulmani - in nome della comune guerra per l'eliminazione del nemico e dell'«entità sionista». È quindi facile comprendere come la questione iraniana abbia assunto ormai da anni un posto di primo piano tra le preoccupazioni israeliane e ogni segno che arriva da quell'area - piccolo o grande che sia - venga passato al setaccio dagli analisti politici, militari e dei servizi segreti che in questo caso si sono affrettati a chiamarsi fuori da ogni eventuale sospetto ribadendo di "non avere nulla a che fare con l'incidente». Ma nel gran ribollire dell'intera questione mediorientale, oggi Israele più che interrogarsi su eventuali cambiamenti della politica di Teheran, a cui nessuno crede, («non avrà alcuna conseguenza nei rapporti tra Israele e Iran», dice un anonimo funzionario vicino all'esecutivo) si pone domande sui propri orizzonti interni con un governo ormai sul punto di rottura, un centinaio di ostaggi nelle mani di Hamas, una piazza tornata ad incalzare Netanyahu, una guerra di cui non si intravede una fine e addirittura con un possibile allargamento del fronte Nord con Hezbollah.

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VENTI DI CRISI

Quello che si sta consumando in queste ore all'interno del governo appare come un gioco sottile in cui più che mostrare le proprie carte ognuno cerca di scoprire quelle degli altri. Un atteggiamento che sembra trovare conferma con la mossa del leader dell'opposizione, il centrista Benny Gantz che minaccia di uscire dal governo di emergenza - di cui era entrato a far parte dopo i massacri del 7 ottobre - se non avrà risposte entro tre settimane su sei punti precisi. E la replica dell'imperturbabile Netanyahu che ha liquidato le richieste del capo del partito di Unità Nazionale con un'alzata di spalle: «Invece di lanciare un ultimatum ad Hamas lo lanciano a me». A ventiquattr'ore dalla sfida di Gantz sono in molti a dubitare su possibili cambiamenti che il premier potrebbe apportare di qui all'8 giugno alla propria linea. Al centro delle richieste la questione degli ostaggi e il dopo guerra a Gaza. Sul primo punto lo stesso Gantz non indica quale possa essere a suo avviso il percorso da seguire per riportarli a casa, se quello militare - come vuole Netanyahu - o quello negoziale come sostengono i familiari e anche un largo fronte internazionale spinto dagli Stati Uniti. E non è difficile immaginare come quest'arma sarà ancora usata spregiudicatamente da Sinwar che semplicemente restando fermo nei suoi dinieghi allargherebbe le crepe all'interno del governo israeliano. E poi la questione della "governance" del dopoguerra a Gaza.

I PIANI

In questo caso la posizione di Gantz si discosta da quella americana che vorrebbe un coinvolgimento dell'autorità palestinese guidata da Abu Mazen proponendo piuttosto un'alleanza Usa, Gran Bretagna, Unione europea, Paesi arabi e palestinesi che getti le basi «di un'alternativa futura che non sia Hamas nè Abu Mazen».
Di questo hanno parlato il consigliere per la sicurezza americana Jake Sullivan con il premier Netanyahu e il capo dello Stato Isaac Herzog: ancora una volta l'amministrazione americana ha rappresentato la propria contrarietà all'operazione su larga scala a Rafah e ha informato i due leader degli incontri avuti in mattinata a Dahran con il principe saudita Mohamed Bin Salman su un possibile piano di pace in Medio Oriente sullo sfondo di un importante accordo strategico tra Usa e Arabia che normalizzerebbe le relazioni israelo-saudite e punterebbe a costruire un percorso credibile verso la creazione di uno stato palestinese (condizione posta preliminarmente da Riyad).

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