Alberto Cisterna

L'analisi/ Trojan e vittime collaterali

di Alberto Cisterna
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Lunedì 13 Maggio 2024, 00:23 - Ultimo aggiornamento: 07:12

L’idrovora delle intercettazioni ambientali e dei trojan sta risucchiando, oltre gli indagati, pezzi importanti della società ligure. Un lotto consistente della sinistra genovese, l’ex (sino al 2021) procuratore della Repubblica della città, il sindaco in carica e, con ogni probabilità, un numero considerevole di altre persone vedono i loro contatti e le loro conversazioni passate al setaccio e ora – con il solito stillicidio – rigurgitate sui media.

Allo stesso tempo l’indagine su Toti pare l’ennesima occasione per duellare sulla separazione delle carriere, sulla limitazione della custodia cautelare, sull’abolizione dell’abuso d’ufficio, e sul preteso assalto alla fortezza giudiziaria da parte di un ceto politico rozzo e vendicativo. Tutte cose che però, a ben guardare, non hanno nulla a che vedere con quanto sta accadendo nel big bang delle trascrizioni e degli atti della gigantesca indagine ligure che, sgattaiolati dal recinto del segreto investigativo, si spargono in mille rivoli sulle colonne dei giornali.

La ricaduta di ogni inchiesta di questo genere produce un pulviscolo corrosivo che colpisce anche soggetti distanti chilometri dal punto di funzionamento e, poi, di implosione del congegno corruttivo disvelato. Vittime collaterali di un sistema d’indagine che, protratto per anni, inevitabilmente si spande come una pioggia radioattiva su persone e fatti solo “contaminati” dalle scorie del mercimonio, ma non per questo esenti dal dover fornire spiegazioni e giustificazioni, in un autodafé che esige abiure e prese di distanza talvolta penose, a dire di un ministro non certo di secondo piano come Crosetto.

Non si può e non si deve criticare l’attività d’indagine della procura di Genova, che certamente ha messo le mani su un ginepraio di interessi affaristici e politici a occhio e croce consolidati e, probabilmente, troppo a lungo trascurati. Al netto della presunzione d’innocenza che assiste e protegge ciascun cittadino dagli effetti di un processo penale in corso, v’è la considerazione che anche l’azione investigativa agisce sotto l’ombrello di una copertura costituzionale e che il bilanciamento di questi interessi è e resta un’operazione difficilissima da attuare non solo in Italia, ma praticamente in ogni democrazia che celebra la libertà di stampa.

Varcata la linea rossa che separa gli indagati dal mondo esterno - ossia dalla moltitudine delle persone che con costoro interagiscono, fosse solo a ragione della rilevanza pubblica delle loro funzioni – la questione si complica e non di poco. Le intercettazioni del terzo millennio, quelle che si fondano sulle microtecnologie e sull’intrusione informatica, si stanno rivelando un’arma di straordinaria efficacia e di capillare diffusività. Un’arma, però, così potente che rischia di sfuggire di mano agli stessi investigatori, perché inaspettatamente tende ad assume essa stessa, quasi in proprio, la capacità di generare modelli di investigazione e di interpretazione della realtà.

È celebre la frase pronunciata in uno dei film tratti dalla fantasia visionaria di Isaac Asimov, compendiata nella raccolta «Io, robot» del 1950: «C’è sempre stato uno spirito nelle macchine; segmenti casuali di codice che si raggruppano per poi formare protocolli imprevisti; potremmo considerarlo un comportamento».

Ecco, il drenaggio massiccio di esclamazioni, divagazioni, speranze, paure, invidie, minacce, sollecitazioni, maldicenze, insomma il meticoloso censimento e la puntigliosa trascrizione delle parole, di tutto ciò che ciascuno di noi filtra attraverso il linguaggio della propria interiorità e della propria irripetibile fragilità umana, rischia di cadere nelle fauci di un moloch tecnologico che vigila incessantemente, analizza, restituisce report senza alcuna enfasi, senza alcuna sfumatura, e che stila gelide relazioni. È difficile far comprendere ai più riottosi, ai più acerrimi fustigatori morali, che il costo sociale e umano di un controllo indiscriminato, prolungato, asfissiante della dimensione comunicativa degli uomini (che nel terzo millennio è divenuta la principale in assoluto), anche del più colpevole degli indagati, rischia di aver effetti collaterali impressionanti e fuori controllo alla fine. L’ideologia del controllo securitario genera un potere che, in ultima analisi, tende a rendersi esente da ogni limitazione e pretende di non rispondere ad alcun altro potere. Un «sesto potere», che Zygmunt Bauman e David Lyon non a caso hanno definito il potere della «sorveglianza nella modernità liquida». Con in aggiunta il fatto che ha dalla sua un linguaggio comunicativo performante e vincente: il sistema di Sesto San Giovanni, il sistema Verdini, il sistema di Formello, il sistema Palamara, il sistema Torre Annunziata, il sistema Catania, il sistema Bari e via seguitando, in una teoria interminabile di sintagmi tutti uguali.

«Sistema» è la parola magica, il lessico che ingloba ogni cosa, annette ogni sfumatura, rende deprecabile ogni contaminazione, fustiga ogni cedimento pur se penalmente irrilevante. Dove ci appare una catena casuale di eventi, si intravede la catastrofe di un approccio tecnologico reso alla fine irresponsabile poiché si affida, senza ulteriori mediazioni e preoccupazioni, alle parole di chi è intercettato. Ex ore tuo, te iudico, «dalle tue stesse parole ti giudico» (Luca 19,22) recita la parabola del più terribile dei padroni di cui è disseminato l’evangelo, il padrone che consegna i talenti agli schiavi e ne chiede conto.

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