Angelo De Mattia
Angelo De Mattia

L’analisi/ Il Patto di Stabilità che sottovaluta la crescita dei Paesi

di Angelo De Mattia
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Giovedì 25 Aprile 2024, 00:40
Si guardi al merito del problema. Si possono certamente valutare i diversi fattori, non propriamente di specifico merito, che hanno portato, nell'Eurocamera, gli europarlamentari italiani ad astenersi o a votare contro la riforma del Patto di stabilità. Si possono pure rilevare contraddizioni e ripensamenti. Ma non si può prescindere da una valutazione dei contenuti che non viene distorta dalle altre diverse possibili finalità del voto, a cominciare da quelle connesse con l'imminente campagna per le elezioni europee.
La riforma del Patto rappresenta un passo avanti rispetto alla finora vigente configurazione peraltro sospesa per cinque anni circa, innanzitutto in relazione al Covid. Ma ci si deve chiedere se la riforma effettivamente risponda al completo superamento di una visione dominata dall'austerity e se sia in grado di contribuire efficacemente a rilanciare la crescita e la competitività nell'Unione. Da questo punto di vista invece, pur con il trattamento particolare di alcuni tipi di investimenti, l'obiettivo di conseguire la "golden rule" - l'esclusione degli investimenti pubblici dai vincoli prescritti, una misura fondamentale per scuotere un'area dalla crescita asfittica - è rimasto una semplice aspirazione di un certo numero di Paesi. Il peso dei partner cosiddetti frugali ha fatto sì che il compromesso conseguito, dopo la bocciatura del progetto originario della Commissione Ue che presentava aspetti non sottovalutabili, sia risultato sbilanciato verso l'area dei rigoristi riluttanti a uscire completamente da un credo nell'austerità, pur trovandosi oggi il loro principale riferimento, la Germania, in una condizione di recessione. Equilibrio dei conti pubblici e rilancio della crescita nonchè della competitività sono, dunque, risultati ben disarmonici. 
Certo, chi ha un debito superiore al 60 per cento del Pil non deve ridurlo annualmente, come nel Patto finora vigente, di un ventesimo della parte eccedente tale percentuale, ma resta pur rilevante la riduzione dell'1 per cento del rapporto per i debiti eccedenti il 90 per cento del Prodotto. Qualora poi il disavanzo sia superiore al 3 per cento del Pil e il Paese interessato è sotto procedura per deficit eccessivo, scatta l'obbligo della riduzione annua dello 0,5 per cento. I piani di riduzione del debito superiore al citato 60 per cento dovranno essere presentati a Bruxelles dai singoli Paesi e avranno durata quadriennale prorogabile a sette anni, ma sulla base di condizioni riguardanti riforme e investimenti. Tuttavia, qui si presenta il circolo vizioso dei vincoli sugli investimenti pesando, questi ultimi, sui nuovi parametri, ma al tempo stesso essendo ritenuti un fattore che consente l'allungamento dei tempi di riduzione del debito. Poiché restano fermi, nella riforma, i parametri di Maastricht - 60 per cento debito/Pil e 3 per cento per il deficit - almeno i percorsi per l'adeguamento avrebbero potuto essere meno restrittiviti. Se non si è voluto o potuto discutere i parametri in questione, certamente un impegno straordinario per il quale forse non esistevano i presupposti data la posizione degli accennati rigoristi, una maggiore disponibilità a una intesa efficace e largamente condivisa avrebbe potuto costituire, questa sì, una vera rivisitazione della governance, compiendo passi importanti verso la maggiore integrazione con il ricorso a iniziative comuni europee finanziate con debito altrettanto comune. Ora, poiché dopo un passaggio scontato nel Consiglio la nuova disciplina entrerà in vigore con i tempi previsti, da un lato, ovviamente, andrà rispettata, ma dall'altro, la prova elettorale e i suoi risultati non potranno ritenersi ininfluenti sulla governance, come se fosse sancita da organi ormai "in articulo" l'intangibilità per un quinquennio delle loro decisioni. E i risultati delle norme in materia finora sono massimamente deludenti, come nei suoi scritti ha dimostrato Antonio Fazio. 
È vero che, al di là delle regole, occorre pur sempre prestare grande attenzione al modo in cui istituzioni, mercati, investitori guardano alla saldezza di un Paese, al suo equilibrio economico-finanziario, alle prospettive. Ma componenti non affatto trascurabili sono la crescita e il debito cosiddetto buono, secondo la definizione a suo tempo data dallo stesso Mario Draghi in un famoso articolo, poi forse passata nel dimenticatoio, ed è appunto la spesa per investimenti. Di recente è stata significativamente richiamata la figura del famoso ministro del Tesoro Usa, Alexander Hamilton il quale unificò il debito dei singoli Stati, storica decisione che rappresento' il fondamentale passaggio per la Federazione americana. Se si guarda alle anticipazioni del Report Draghi sulla competitività europea e a quello di Enrico Letta sul mercato unico, a fronte di queste prospettive di respiro si deve rilevare una visione tutta miopemente fondata su di un Patto che dell'endiadi continua a sottovalutare il secondo termine - la crescita. Eppure, quando fu sottoscritto il Trattato di Maastricht, al ministro del Tesoro italiano, una personalità prestigiosa quale Guido Carli, tremò la mano, come egli stesso poi disse, ma a lui fu assicurata un'ampia autonomia delle politiche nazionali, cosa che purtroppo non è stata rispettata. Rispetto delle nuove norme, dunque, ma non abbandono dell'esigenza di una vera riforma: non bisogna abbandonare un criterio di valutazione dei veri o presunti progressi. In questo caso, quali le conseguenze ultime, ci si deve chiedere, delle politiche e delle leggi per i cittadini. Il processo di integrazione comunitaria deve poter camminare con le gambe delle donne e degli uomini europei.

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