«Il problema è che siamo nel bel mezzo della seconda ondata e che non possiamo vivere vite senza restrizioni fino a quando non ci sarà la vaccinazione di massa, per cui la sfida più grande è che questa avvenga più diffusamente possibile nel 2021 conciliando nel frattempo il controllo del virus con il sostegno dell’economia». Quello del capoeconomista della Bce, Philip Lane, è la sintesi del dilemma che ci trascineremo almeno per tutto il prossimo anno. Un dilemma la cui dimensione economica, sociale e anche psicologica è appena percepibile. Rispetto ad altri eventi di tipo catastrofico, per esempio le guerre, la crisi originata da una pandemia annichilisce famiglie e imprese ma non distrugge capitale produttivo; per contro, dopo una guerra la ricostruzione fa da stimolo a una ripartenza di norma particolarmente forte.
LA TRANSIZIONE ECOLOGICA
«L’analisi delle pandemie nella storia mostra che i loro effetti macroeconomici persistono nel tempo, in media 40 anni a causa di un aumento dell’avversione al rischio e del risparmio cautelativo», ricordano i due economisti del CEPII di Parigi Isabelle Bensidoun e Jézabel Couppey-Spubeyran. Quarant’anni non è una previsione per l’oggi, naturalmente, tuttavia questi flash danno il senso della grande incertezza che circonda l’evoluzione dell’economia. L’enorme mobilitazione di risorse pubbliche degli Stati, dell’Europa e della Bce agisce da tampone, fa guadagnare tempo e assicura la stabilità (relativa) di redditi e imprese. Nello stesso tempo, questa l’ambizione, crea le condizioni per finanziare le transizioni ecologica e digitale considerate le nuove leve per la crescita. Cionondimeno, si teme che i comportamenti delle imprese e delle famiglie restino a lungo improntati alla diffidenza e ampi settori sociali restino esclusi dalla ripresa avviatasi da metà 2020 e poi di colpo smorzatasi dall’autunno: potrebbero rafforzare «la tendenza alla stagnazione secolare affermatasi dopo la crisi finanziaria mondiale», dicono al Centre d’Ètudes Prospectives et d’Informations Internationales. Tuttavia con i vaccini all’orizzonte c’è meno pessimismo, anche se resta alta la prudenza per le misure di confinamento e controllo che continueranno a pesare sull’attività economica. La Bce indica una caduta del Pil nell’area euro nel 2020 del 7,3%; nel 2021 è attesa una crescita del 3,9%; nel 2022 del 4,2%; nel 2023 del 2,1%, anno in cui il Pil si troverebbe al di sopra del livello pre-crisi. Ciò però nell’ipotesi di una graduale soluzione della crisi sanitaria nel 2021, dell’attuazione puntuale di Next Generation Eu, di politiche fiscali nazionali ancora espansive e di una ripresa a livello mondiale. Il Pil, insomma, tornerebbe al livello di fine 2019 solo a metà 2022. Ma non tutti gli Stati arriveranno al traguardo nella stessa misura e negli stessi tempi: la Commissione a novembre indicava che solo Germania e Polonia tra le grandi economie avrebbero raggiunto i livelli pre-crisi nel 2022.
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L’OMBRELLO DELLA BCE
Un’idea più precisa del ritorno a una situazione più “normale” è implicita nelle ultime decisioni della Bce: il bazooka monetario, con l’aggiunta di 500 miliardi di euro per un totale di 1.850 miliardi tra acquisti di titoli sovrani e delle imprese (netta prevalenza dei primi) è stato esteso a marzo 2022.
L’AZZARDO MORALE
Il punto è che il tema del debito interseca due ambiti. Il primo è quello del modo in cui saranno gestiti i debiti eccessivi delle imprese che hanno buone prospettive di mercato e non erano in crisi prima della pandemia: andrà trovato un compromesso tra “azzardo morale” (salvare chi ha preso troppi rischi) e necessità di preservare imprese “indispensabili per il bene” dell’economia, come ha indicato il rapporto Draghi per il G30. Il secondo è come evitare un pericoloso accumulo di crediti bancari deteriorati: secondo il responsabile della vigilanza Bce, Andrea Enria, c’è il rischio raggiungano un livello di 1.400 miliardi, ben di più di quello dovuto alla crisi finanziaria e del debito sovrano. L’unica via di uscita, come è ovvio, sarebbe una crescita a ritmi superiori a quelli pre-crisi e non basteranno certamente le leve interne: Green Deal ed economia digitale daranno effetti nel periodo medio-lungo. Il divario rispetto al ritmo della ripresa americana resterà: nel 2020 il Pil Usa è calato del 3,7%, quello dell’area euro del doppio; nel 2021 gli Usa recupereranno la perdita, l’Eurozona ne recupererà solo metà. D’altra parte dal 2008 al 2019 gli Usa sono cresciuti in media dell’1,85% l’anno, l’area euro dello 0,82%. E non aiuta la debolezza del dollaro, vera manna per la presidenza Biden: a fine novembre l’euro ha sfondato quota 1,21 sul biglietto verde e non succedeva da due anni e mezzo. Anche la Bce è preoccupata. Per fortuna che il barile di petrolio è tornato sopra 50 dollari, almeno il tasso di inflazione non subisce ulteriori pressioni al ribasso.
EUROPE FIRST
Si scommette sulla presidenza Biden che, recuperando il senso storico-politico delle relazioni amichevoli con l’Europa, segnerà lo stop al ripiego protezionistico, tuttavia c’è molta cautela in entrambe le sponde dell’Atlantico: la Ue punta a offrire mille occasioni per riprendere la tela di relazioni commerciali organiche distrutte da Trump, ma sa che non potranno essere rieditate suggestioni di mega partnership. Biden è molto cauto su questo: American First resterà sia pur diversamente declinata e praticata proprio nel momento in cui si delinea una circostanziata Europe First. L’attenzione americana sarà assorbita dalla Cina più che dall’Europa. Peraltro, la politica climatica da un lato e dall’altro la stretta europea sui colossi digitali (innanzitutto Usa) sul piano della regolazione e sul piano fiscale (webtax) non giocano certo a favore di una riconciliazione. In ogni caso, il cambiamento di atmosfera e di prospettiva da parte americana crea un contesto distensivo opposto a quello dell’era Trump. La Ue sta perseguendo con determinazione politiche che ne rafforzino l’autonomia strategica per affermare una sovranità europea: dalla farmaceutica alle materie prime critiche, dal digitale alle tlc di frontiera (5G). Il rafforzamento del ruolo globale dell’euro è un fattore decisivo. È il nuovo mantra per reagire allo spostamento altrove del baricentro economico globale: tra il 2016-2020 il 53% degli investimenti industriali nel mondo è stato realizzato in Asia, il 20% negli Usa, il 13% in Europa. Tra le incertezze c’è la Brexit, naturalmente, ma comunque vadano le cose è stato chiaro fin dall’inizio che una uscita hard, senza accordo, comporterebbe costi maggiori per i britannici che per i Ventisette essendo la Ue il maggior partner commerciale per il Regno Unito, cui è destinato il 43% di tutte le esportazioni inglesi.